Oil&Nonoil, la famosa fiera dedicata alle industrie del carburante, del gas e dei mezzi di trasporto, stazioni di servizio, attività non-oil, carburanti alternativi, stoccaggio del combustibile e trasporti che quest’anno è alla sua 14° edizione (23-24 ottobre, Roma), ha redatto una serie di interviste ai maggiori rappresentanti del settore. Iniziamo con il riportare quella del presidente della Fegica, Roberto Di Vincenzo.
Eliminare i molteplici oneri, costi e adempimenti che pesano sui gestori; abbattere le barriere tra i canali di vendita “rete” ed “extrarete”; mettere mano ad una riforma complessiva del settore, dalla raffinazione alla distribuzione, per combattere l’illegalità; impegnarsi apertamente per un vero ed urgente processo di razionalizzazione della rete. Sono queste le cose su cui bisognerebbe lavorare principalmente, come sostiene Roberto Di Vincenzo, presidente della Fegica. Il tutto “rafforzando il ruolo delle associazioni” e “superando i particolarismi individuali”: “Le associazioni, siano esse degli industriali, dei retisti o dei gestori, o dimostrano di avere la forza e la capacità per indicare la via, anche a costo dell’impopolarità momentanea al proprio interno, o altrimenti condannano se stesse e i propri rappresentati all’improvvisazione e a inseguire l’abbrivio tracciato da altri”, dice Di Vincenzo.
Dal primo gennaio 2019 è in vigore l’obbligo per i gestori di emettere fattura elettronica ai clienti che ne fanno richiesta. Un bilancio di questi mesi?
Se la domanda vuole ottenere una valutazione asettica sui costi ed i benefici di un tale obbligo, difficile poter sostenere che non si tratti – al momento – di un bilancio assolutamente fallimentare. Ad oggi si conoscono tutti gli oneri ed i costi a cui sono costretti i gestori. Quello che nemmeno si intravede è il beneficio che i gestori ne dovrebbero trarre. Pure si volesse soprassedere rispetto al fatto che non risulta nessuna nuova entrata a compensazione dei costi sostenuti, sarebbe ardito pretendere di sostenere che il beneficio sia quello di una lotta più efficace all’illegalità, peraltro ancora tutta da dimostrare. Non c’è bisogno di consultare le cronache locali o nazionali piene quotidianamente di sequestri di prodotti, botti, depositi e intere aziende, per rendersi conto che i comportamenti illegali sono aumentati di intensità. E’ sufficiente constatare che, senza soluzione di continuità, quanti sostenevano che la fatturazione elettronica avrebbe posto fine al fenomeno, hanno poi alzato la bandiera della comunicazione telematica dei corrispettivi sempre con l’identico ritornello. Ed ora, mentre ancora i cosiddetti “corrispettivi elettronici” non sono ancora stati introdotti sui carburanti, c’è chi sostiene che “l’arma fine di mondo” sarebbe ancora un’altra: il “reverse charge”. Sarebbe urgente che da tutto questo il settore traesse il più rapidamente possibile due insegnamenti. Il primo è che appare irresponsabile continuare a caricare la rete, ed in particolare i gestori, di oneri, costi e adempimenti che dovrebbero essere considerati, a tutti gli effetti, “oneri di sistema” e quindi a costo zero per una categoria di operatori già largamente in difficoltà. Vittima, a diverso titolo, dei comportamenti illegali e che, per sovra mercato, non ha alcuna possibilità di riversare autonomamente i suoi maggiori oneri sul prezzo al pubblico. Il secondo è che rappresenta una pia illusione sperare che il fenomeno dell’illegalità sia anche solo contenibile (figurarsi se può batterlo) esclusivamente grazie al moltiplicarsi di leggi, obblighi, sequestri, polizia, guardia di finanza.
A proposito di illegalità, quali altre misure andrebbero prese per contrastare questa piaga?
Appunto. Non si tratta di andare alla ricerca di una bacchetta magica normativa che semplicemente di per sé non esiste. Intendiamoci le regole ci vogliono ed anche noi ci siamo fatti promotori di alcuni strumenti – come, ad esempio, la reintroduzione del “sotto costo” nei carburanti o un diverso utilizzo del portale ministeriale che riceve e monitora i prezzi della rete, per segnalare la presenza di “prezzi anomali”- che riteniamo possano, a condizioni date, utilmente contribuire allo scopo. Tuttavia, ciò cha appare nella sua solare evidenza, anche semplicemente a volersi fermare alle notizie di cronaca, è che non siamo in presenza di una battaglia epocale tra schieramenti chiaramente individuati, formati da “legalisti” da una parte e “illegalisti” dall’altra. Chi volesse credere che gli “illegalisti” siano soggetti ignoti, con il passamontagna in testa, ridotti in clandestinità, estranei non solo al settore ma anche al consesso civile, ha una visione piuttosto romantica (e datata) della questione. La dura ma più concreta realtà è che molti operatori, a voler essere cauti, hanno (ma si potrebbe anche dire confessano di avere) un piede di qua ed un piede di là della legalità. Ed è chiaro che in assenza di una diffusa adesione volontaria alle regole, né la migliore legge, né il più grande spiegamento di forze di polizia possono garantire il risultato. Accanto alle misure ritenute utili, quindi, è ormai giunto il momento di mettere mano ad una riforma complessiva del settore, dalla raffinazione alla distribuzione, della sua struttura, delle regole che debbono presiedere al suo funzionamento. Senza di che saremo condannati a continue pressioni, più o meno improvvisate, di questo o quell’altro gruppo organizzato che, più o meno in buona fede, dietro al paravento della lotta all’illegalità pretende di imporre strumenti ritenuti utili a contrastare i comportamenti illegali degli altri, favorendo e proteggendo i propri. Proprio perché non vuole arrendersi alla necessità di considerare di metter mano ai diversi elementi che compongono il contesto e che dovrebbero concorrere a garantirne equilibrio e pari opportunità. E’ stata a lungo in voga la storiella che le regole costituiscono di per se stesse una “ingessatura” (diverso discutere dialetticamente sulla loro validità e riformabilità), sostenuta dall’interno del settore fin dai primi anni del secolo per giustificare, nella prassi, comportamenti già allora apertamente contra legem, ad aprire il varco alla violazione sempre più diffusa ed organizzata delle norme ed al progressivo allargamento dall’area di illegalità. Non il contrario. Così come si è rivelata semplicemente per quello che è, vale a dire falsa, l’affermazione secondo la quale il mercato si regola al meglio da sé. Se dessimo retta alla direzione impressa dal mercato oggi, anche il leader del mercato dovrebbe predisporsi al più presto a consegnare prodotto che, per caratteristiche e percorsi “paralleli” industriali e commerciali fosse paragonabile a quello che sta inondando il mercato. Ciò per mantenere una competizione che diversamente sarebbe insostenibile. Piaccia o meno ai moltissimi interessi particolari a cui questo settore, in queste condizioni pure di degrado, riesce a garantire rendite persino crescenti (come mai c’è la corsa ad accaparrarsi intere reti a prezzi che, fino a due anni fa erano improponibili?) l’interesse collettivo a cui andrebbe assicurata priorità ha bisogno di programmazione e governo. Né la politica, né i soggetti sani del settore, a cominciare da quelli più strutturati e dalle loro rappresentanze organizzate, dovrebbero potersi sottrarre a prestare parte della loro forza ed autorevolezza perché venga ottenuto un tale obiettivo.
Crippa sottolinea che dai risultati emersi dall’anagrafe carburanti il numero degli impianti incompatibili è inferiore alle attese. Cosa ne pensa di questo dato?
E’ un dato che dimostra come nessuno abbia più alcun alibi nel non impegnarsi apertamente per un vero ed urgente processo di razionalizzazione della rete. Già più di cinque anni fa, siamo stati tra i promotori di un progetto di razionalizzazione articolato che prevedeva, in estrema sintesi, la chiusura di almeno 5.000 punti vendita, basata su criteri di efficienza e sostenibilità (bassi volumi di vendita, assenza di attività e servizi integrati, conflitto con le norme contenute nel CdS, ecc.). Le ragioni di opportunità che nel tempo si affermarono, ci hanno consigliato di ripiegare su un progetto molto meno ambizioso (e adeguato) ma che potesse raccogliere il consenso anche di altri soggetti. Anche di quanti, per intenderci, volevano che gli impianti si chiudessero, ma solo quelli degli altri. Il compromesso che poi Governo e Parlamento hanno accolto, solo quattro anni dopo (e con ulteriori annacquamenti), faceva perno unicamente sugli impianti cosiddetti “insicuri”, prendendo in questo modo atto, anche sul piano lessicale, che gli impianti possono essere davvero definiti incompatibili solo se ciò viene certificato da un giudizio terzo (e dopo tutti gli eventuali ricorsi). Questa parabola fa giustizia delle remore e delle malintese prudenze che ancora circondano un argomento che rappresenta una delle vere urgenze del settore, anche sotto il profilo del contrasto all’illegalità. Secondo i dati ministeriali esistono più di 5.000 impianti che erogano (ufficialmente) meno di 300mila litri all’anno. Di questi, più della metà eroga (ufficialmente) meno di 150mila litri. Una indagine di polizia è necessaria ad un Tribunale per trarre le conclusioni legali. Ma a chi si occupa delle dinamiche del settore non può sfuggire, anche con queste sole informazioni a disposizione, quanto sia necessario ed urgente intervenire con metodo impositivo. Appunto senza più scuse, né alibi. Si potrà discutere sul metodo migliore, ma non sull’obiettivo che dovrebbe essere perseguito ad ogni costo. E non possiamo dimenticare che anche sulla viabilità autostradale la situazione della ridondanza degli impianti è sotto gli occhi di tutti: si mantengono aperti impianti che rogano 500/600 Klt/anno o si mandano a gara -a favore degli operatori della ristorazione che pagano royalty di miseria- Aree di Servizio integrate con erogati fino a 1.500/2.000 Klt/anno. Anche questa è una contraddizione che deve trovare una soluzione.
D’altra parte, ragionamento se non simile almeno paragonabile dovrebbe ormai essere compiuto sulla necessità di abbattere le barriere, del tutto fittizie e strumentali, tra i canali di vendita cosiddetti “rete” ed “extrarete”. A chi giova tenere separati canali di approvvigionamento a regole del tutto differenti (chiare per la rete, indefinite per l’extrarete) che pure riversano entrambi lo stesso prodotto sul medesimo livello finale della filiera, sulla medesima rete di vendita su strada e, sempre più spesso, sullo stesso punto vendita? E a che cosa dovrebbe servire, oltretutto in un contesto ormai tanto parcellizzato e sempre meno verificabile di operatori ed intermediari, se non a proteggere e a garantire un sempre più elevato livello di opacità dei comportamenti?
Recentemente si è aperto un altro fronte con IP. Il Mise ha assicurato l’apertura immediata del tavolo di conciliazione delle vertenze collettive. Cosa chiedete?
Abbiamo richiesto l’avvio della vertenza collettiva prevista dalle legge principalmente in funzione delle palesi e reiterate violazioni degli Accordi collettivi vigenti sia sotto il profilo economico che normativo oltreché per l’oggettivo atteggiamento dilatorio che l’Azienda continua ad opporre alla necessità di rinnovare ed adeguare quei medesimi Accordi, alcuni dei quali scaduti da oltre 15 anni. Inoltre, abbiamo depositato e contestato un modello contrattuale, definito “contratto di appalto di servizi evoluto”, che api/IP sta imponendo a numerosi Gestori sia di rete ordinaria che autostradale. Volendo appena accennare al fatto che si tratta di un contratto viziato da un evidente squilibrio a favore del contraente forte che ne ha redatto unilateralmente i termini e le condizioni, salta agli occhi la palese violazione della normativa di settore che consente l’introduzione di modelli contrattuali esclusivamente attraverso la definizione di Accordi collettivi interprofessionali, così come è avvenuto con il recente Accordo sul Contratto di Commissione siglato alla fine dello scorso anno. Al Ministero dello sviluppo economico abbiamo chiesto che eserciti con decisione le sue prerogative istituzionali allo scopo di difendere la normativa vigente e ricondurre api/IP all’interno della legalità, ora apertamente violata con la stessa identica consapevolezza e noncuranza con la quale altri, ad esempio, si servono delle “truffe carosello” o edulcorano il gasolio con basi per oli lubrificanti (senza accisa nel resto d’Europa) per eludere la tassazione sui prodotti. La differenza sta semplicemente nel fatto che l’ingente danno procurato alle migliaia di piccole imprese di gestione -fino a costringerle al fallimento- attraverso la violazione degli Accordi e delle condizioni economiche in essi contenute, l’utilizzo di clausole contrattuali illegittime e vessatorie, il ritardo sistematico e sine die nella liquidazione dei crediti maturati dalle gestioni, l’imposizione di prezzi fuori mercato e ingiustificati (cosa può legittimare, ad esempio, un differenziale tra prezzo self e servito sul medesimo impianto persino oltre i 40 cent/lt?), proprio non riesce ad ottenere nemmeno un piccola quota delle attenzioni che la politica, la polizia, la guardia di finanza, il resto del settore, compresi gli osservatori ed i commentatori che altrimenti si esercitano senza parsimonia, riservano alla grande questione dell’illegalità nel settore dei carburanti. Eppure, a ben guardare, anche da questi comportamenti illegali si traggono ingiusti vantaggi capaci di influenzare anche la concorrenza ed il mercato, a tutto svantaggio di quanti (ancora) operano seguendo la legge e, di conseguenza ed in ultima analisi, del consumatore finale. Il Ministero dello sviluppo economico, grazie all’avvio di questa vertenza collettiva, si ritrova per le mani una grande occasione, forse irripetibile. Rovesciare la convinzione diffusa che fare rispettare le leggi in questo settore non è solo impossibile ma anche inutile, sarebbe già di per sé percepito da molti altri soggetti come un cambiamento epocale con il quale cominciare a fare i conti. Che tutto ciò prenda le mosse dal confronto dialettico che il Ministero può avviare con una azienda petrolifera integrata che, pur essendo la prima in termini di punti vendita e la seconda per quota mercato, si muove, di volta in volta, come un “grande retista” piuttosto che con “logiche puramente finanziarie”, vale a dire in modo del tutto eccentrico e disordinato, anche e soprattutto in termini di prospettiva, rispetto al mercato di cui oggi è leader, potrebbe consentire di cambiare il destino che attende il settore stesso nei prossimi anni, evitando ulteriori mortiferi danni alla sua struttura, dopo quelli prodotti dalla fuga del tutto sottovalutata e mal gestita dall’Italia delle multinazionali del petrolio.
Come procede il dialogo con l’Unione petrolifera?
Siamo convinti che all’interno dell’industria, anche grazie al ruolo esercitato dalla sua rappresentanza associativa, sia ormai maturata una nuova convergente consapevolezza circa la necessità di restituire al settore un equilibrio ed un sistema di regole grazie alle quali poter normalizzare anche le relazioni, la dialettica e la convivenza tra i diversi soggetti. Metodo e ragioni che hanno consentito la definizione di un accordo interprofessionale (sul contratto di commissione) a distanza di venti anni dall’ultimo precedente, hanno avuto anche il merito di rendere tangibile quanto tutto questo sia possibile ed opportuno. Il confronto su temi quali la razionalizzazione della rete su criteri di efficienza, la riforma del decreto Interministeriale del 2015 per la rete autostradale, l’introduzione di un sistema di controlli e penalizzazioni per comportamenti che violano le norme sui contratti di gestione e gli accordi collettivi, è stato già avviato e, a nostro avviso, ha solide basi di partenza. E tuttavia si tratta di un lavoro che ha bisogno di essere sostenuto dalla convinzione che il tempo non può più essere ritenuto una variabile indipendente. Le soluzioni oggi potenzialmente a portata di mano, già entro breve tempo rischiano di non essere più adeguate. Fare in fretta, oltreché bene, diventa un elemento determinante del confronto. Anche per questa ragione sarebbe davvero utile, più in generale, che le realtà associative dei diversi soggetti assumessero un nuovo ruolo ed una più consapevole responsabilità nel superare i particolarismi individuali esistenti al proprio interno e nel farsi promotrici di una direzione di prospettiva al settore. Le associazioni, siano esse degli industriali, dei retisti o dei gestori, o dimostrano di avere la forza e la capacità per indicare la via, anche a costo dell’impopolarità momentanea al proprio interno, o altrimenti condannano se stesse e i propri rappresentati all’improvvisazione e a inseguire l’abbrivio tracciato da altri.
Avete in mente azioni anche a livello di associazione?
La Fegica ha provato ripetutamente, anche di recente, ad esprimere le ragioni non retoriche di fare ricorso all’unità di azione. Rafforzare il ruolo delle associazioni, come già detto, appare l’unico strumento adottabile non solo per fare sintesi di una molteplicità di differenti interessi e spesso di miopi egoismi, ma anche e soprattutto per candidarsi in modo credibile a incidere su una realtà complessa e ricca di contraddizioni. Tuttavia, tutto questo non può in alcuna maniera costringerci all’inerzia piuttosto che a subire veti, soprattutto se immotivati. L’articolazione delle posizioni costituisce un valore che arricchisce la dialettica solo se esiste la concreta disponibilità di ciascuno a ricercare, alla fine, una approdo convergente al confronto proprio nella convinzione che nessuna idea, per quanto possa pretendere di essere la migliore e la più giusta, può fare a meno della solidità che solo il consenso diffuso garantisce. Ciò premesso in termini generali, noi siamo convinti che il necessario processo di riforma del settore debba obbligatoriamente essere accompagnato in parallelo dalla urgente ricostruzione di un margine economico gestionale coerente con la complessità, il grado di professionalità ed il livello di obblighi, costi ed oneri di cui attualmente caratterizzano il ruolo del gestore. Non riconoscere una tale condizione significherebbe continuare ad avere una visione della distribuzione carburanti, questa sì, vecchia e superata, tutta rivolta al passato, fatta di soggetti che operano alla buona, trovando le proprie compatibilità negoziando sul momento tolleranze più o meno esplicite per comportamenti ispirati alle mille sfumature del grigio. Non si tratta, quindi, solo di restituire un livello di economicità sostenibile al margine di gestione, che pure sarebbe già motivazione necessaria e sufficiente. In gioco c’è anche la coerenza di realtà imprenditoriali -fossero aziende integrate o retisti privati più o meno strutturati- che se vogliono conservare quella credibilità che pretendono di avere quando interloquiscono con la politica o si appellano al settore, debbono necessariamente risolvere la contraddizione patente che anima i propri comportamenti tenuti sulla rete di vendita. E’ a sostegno di questo principale obiettivo che la Fegica proporrà alle altre organizzazioni di categoria di assumere le iniziative sindacali necessarie, se fosse il caso anche lo sciopero generale, all’inizio del prossimo autunno.
Video di repertorio di Di Vincenzo sul ruole del Sindacato dei Gestori Carburanti
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BLA BLA BLA BLA BLA BLA….. I gestori devono essere sfruttati il piu’ possibile.. E se si lamentano; fanno le vittime.. Ma Vaff… Nell’Unione petrolifera, vi sono troppe teste.. E guadagno uno sproposito rispetto a quello che fanno.. Se gestissero loro gli impianti, chiuderebbero per fallimento dopo qualche mese; oppure aumenterebbero il prezzo a dismisura.. E a noi gestori avete tolto anche un misero overprice da 0.012 cent.. (di cui per altro lo 0,002 è di Iva..).. Ma andate a fare in c…!!!!