Il presidente della Fegica, Roberto Di Vincenzo, risponde a Beppe Gatti sul tema sollevato la scorsa settimana dalla Staffetta delle ulteriori liberalizzazioni della distribuzione carburanti necessarie secondo quanto indicato dal ministero dell’Economia nel Programma nazionale di riforma (Pnr). Secondo Di Vincenzo, prima di parlare di liberalizzazioni sui contratti è necessario stabilire una linea di partenza comune: un Durc, un Documento unico di regolarità contrattuale come condizione indispensabile per chi vuole avere operare nel settore.
“Ho letto con estremo interesse le riflessioni del prof. Gatti in merito alle considerazioni inserite dal ministro Gualtieri nel Pnr.
Appare subito evidentemente che le informazioni fornite al ministro dell’Economia (da chi?) sono non solo datate ma anche fuorvianti. Infatti, il nostro settore da oltre venti anni è al centro di un interesse spasmodico da parte dell’Amministrazione – comunque la si voglia declinare – con risultati che pur volendo definire catastrofici non aiutano a rappresentare la realtà. Quella vera.
Rifare la storia servirebbe a poco (ormai c’è una desuetudine a cimentarsi con essa): mi preme però ricordare che dal Dlgs 32/98 (Bersani) alla legge 27/12 (Monti), è stato un susseguirsi di norme e provvedimenti che hanno premiato – a seconda dell’epoca – questa o quella tesi, senza che una visione di insieme (direi strategica) consentisse una vera e propria “riforma del settore”.
In questo “marasma normativo” la responsabilità dell’Agcm è palese: senza entrare nel merito dei singoli provvedimenti, dobbiamo ricordare che il nostro settore detiene il record mondiale delle segnalazioni, delle attività istruttorie e dei provvedimenti conseguenti.
L’obiettivo raggiunto è che la (presunta) liberalizzazione del settore (e dei prezzi) ha generato un mostro con più di sette teste, al quale nessun Eracle – per quanto forte e possente – riesce a tagliare la testa, portando a termine l’ottava fatica.
La rete non esiste più: c’è solo un coacervo di micro-interessi particolari (ed una forzatura sui prezzi per le vendite in modalità servita che è, nel silenzio di chi dovrebbe controllare, almeno scandalosa) ai quali, prima o poi, anche le compagnie petrolifere rimaste (ricordo che sono solo quattro) si arrenderanno: altri operatori internazionali hanno già abbandonato il nostro mercato (ma nessuno si è posto il problema), retto da regole mutevoli ed incomprensibili, a vantaggio di altri Paesi nei quali le regole ci sono, sono univoche, durevoli (ai fini di una programmazione degli investimenti e delle politiche di marketing) e, soprattutto, sono fatte rispettare. Addio investimenti; addio a visioni di scenario; addio alla internazionalizzazione delle esperienze. Addio!
In Italia, famosa per avere una bulimia legislativa, le leggi ci sarebbero pure ma non si trova chi le faccia rispettare: i poteri di intervento sono stati diluiti in migliaia di rivoli (Stato-Regioni-Comuni e finanche Province) tanto che appare almeno difficile (se non impossibile) risalire la strada (in salita) delle responsabilità (tante firme, tanti pareri uguale a nessuna responsabilità).
Solo per fare un esempio, prendiamo in considerazione la norma sulla incompatibilità e la costruzione dell’Anagrafe degli impianti (che abbiamo fortemente voluto): non solo i risultanti sono insoddisfacenti ma anche le incompatibilità manifeste riscontrate hanno necessità che i Comuni (magari che hanno appena rinnovato per 15 anni la durata dell’autorizzazione) agiscano. Al netto delle procedure amministrative tese a scongiurare le chiusure.
Se veramente volessimo affrontare seriamente il problema, dovremmo avere il coraggio di assumere la decisione (coercitiva e non facoltativa) di chiudere 10mila impianti improduttivi (sulla viabilità ordinaria) e 100 impianti “inutili” in autostrada, senza gridare che ciò sarebbe una violazione del principio della libera impresa (allora come hanno fatto e stanno facendo in Olanda?)
Per questo andiamo chiedendo da tempo, unitariamente, che la riduzione del numero dei p.v. venga assunta come tema centrale dal settore prima e dalla politica, poi: senza questo coraggio, crediamo che continuare ad ipotizzare un futuro nel quale ci sia spazio per tutti (anche per qualche retista meno attrezzato), sia un’impresa ardua.
Abbiamo sperato che la risoluzione De Toma (approvata all’unanimità dalla X Commissione della Camera nello scorso dicembre) – che traccia egregiamente il ritratto del settore ed individua alcuni meccanismi correttivi che mettano fine alle storture ed all’illegalità diffusa – potesse preludere ad un’assunzione di responsabilità della politica ma il ministro Patuanelli, ripetutamente sollecitato, ha sempre ignorato le nostre richieste.
Il tema centrale, a Via Molise, continua a rimanere l’elettrico: forse per questo non esiste un sottosegretario con la delega all’energia. Eppure il nostro settore garantisce – in attesa del futuro – mobilità e gettito fiscale senza i quali il Paese si fermerebbe in attesa del Godot elettrico.
In altre parole, chiediamo che il percorso di ristrutturazione sia assunto con iniziative coercitive perché, con onestà intellettuale, dobbiamo ammettere il fallimento del “volontarismo” che abbiamo già sperimentato con la Legge sulla concorrenza (che, pure, prevedeva una moratoria e bonifiche semplificate per chiunque chiudesse gli impianti obsoleti e fatiscenti): l’esperimento non è andato a buon fine perché, purtroppo, pochissimi hanno colto questa opportunità ed hanno preferito mantenere attivi i ferrivecchi pur di lucrare qualche litro in condizioni di prezzo (dire di mercato mi sembra di insultare le intelligenze dei suoi lettori) che sarebbero tutte da verificare.
Il ministro Gualtieri dovrebbe assumere questo dato e rendersi conto che “barriere all’ingresso” non esistono più nel nostro settore e, magari, guardarsi in casa e prendere nota degli sbarramenti che impediscono il libero accesso alla distribuzione dei tabacchi (nonostante le leggi).
Per ottenere una rivendita di tabacchi bisogna dimostrare le distanze, il tasso di natalità, le superfici e superare sbarramenti di ogni tipo: ma, certo, lì il regime è concessorio (e non autorizzativo) come hanno avuto modo di verificare anche il prof. Monti ed il prof. Catricalà (il cui testo è stato cancellato dall’Agcm).
E, inoltre, non può essere sottaciuto che, in questo mondo alla rovescia, tutti si lamentano ma il numero degli impianti cresce a dismisura determina una dissonanza, una nota stonata che nessuno ha interesse a prendere in considerazione: ciò vuol dire che, al di là dei piagnistei, per chi sta a monte nella filiera, ci sono margini di guadagno (quello che non c’è per i gestori), c’è uno spazio economico che giustifica tali investimenti (nonostante il calo degli erogati che va avanti da un decennio)? Una domanda retorica che, ahimè, rimarrà come al solito, senza risposta (o avrà risposte fumose che scomoderanno il concetto della libertà di impresa)
Quanto alla liberalizzazione dei contratti richiesta a viva voce dal prof. Gatti, è bene precisare che anche questo è un falso problema: non esiste più solo il “comodato” ex lege ma anche il contratto (due) di commissione (depositati presso il Mise); un contratto che, considerato da tutti come la panacea per il superamento di ogni restrizione, è applicato da un numero residuo di retisti (che preferiscono la guardiania, il presidio o un appalto senza regole per fare i propri comodi senza sopportare oneri o rispettare vincoli) e che riguarda poche decine di impianti in autostrada di una sola compagnia.
Lasciare che si applichino – senza sanzioni – tutte le tipologie contrattuali contenute nel codice civile (mezzadria compresa), senza alcun controllo, vuol dire accompagnare il settore alla morte. A meno che non cambi la struttura stessa del settore e che i gestori (o chiamateli come volete perché non siamo legati ai formalismi) abbiano un ruolo diverso nella filiera.
I gestori o sono dipendenti (come prevedeva la legge del 1933) o se sono imprenditori devono poter decidere in un regime che non sia soffocato dall’esclusiva sull’acquisto dei carburanti o dalla pedissequa adesione alle politiche commerciali della singola azienda (quando pure ci si trovasse di fronte ad un’azienda). Avere un operatore che sia obbligato – in nome della proprietà – ad acquistare in esclusiva, a pagare con il proprio denaro, a correre l’alea dell’impresa sapendo che un altro soggetto determina tutte le condizioni che rendono un’impresa tale, ci pare davvero ingeneroso. Perfino in autostrada, dove permane il regime concessorio, sono state fatte strame delle leggi e, grazie a pareri “poco ortodossi” della concedente, si sono potuti allontanare i gestori per lasciare il posto non a gestioni dirette condotte con proprio personale dipendente da parte dei nuovi “affidatari” ma a soggetti – totalmente controllati dall’affidatario – cui sono stati contratti identici a quelli negati ai gestori uscenti.
Peraltro la difficile ricerca dei gestori che diano le garanzie di onorabilità, solvibilità e capacità di rappresentare correttamente, sul mercato, il marchio con il quale sono legati da contratti, è la riprova che una ricetta che soffoca nella culla ogni aspettativa, nega anche la possibilità di approdare a politiche di medio-lungo periodo. Forse, anche per questo, il nostro settore – nelle sue diverse sfaccettature – è preso di mira dalla criminalità organizzata. Magari solo per riciclare proventi illeciti.
Il dilemma rimane: o gestori con diritti e risorse economiche per condurre la gestione o gestioni affidate alla malavita (organizzata o meno).
Per questo noi immaginiamo che, prima di parlare di “ulteriore” concorrenza (sic!), si fissino criteri che impediscano le infiltrazioni mafiose ed i comportamenti disinvolti che sono propedeutici alla crescita del fenomeno: noi proponiamo – ancora una volta – che per accedere al sistema delle “autorizzazioni petrolifere” si debba essere in possesso (come le imprese che effettuano lavori) di un Durc, cioè un Documento unico di regolarità contrattuale. Chi non fosse in possesso di un tale documento non potrebbe essere titolare di un impianto di distribuzione carburanti (visto il servizio che rende alla collettività).
Certo: ove tornassimo alla “concessione” (visto che in passato abbiamo già sperimentato prima il lavoro dipendente, poi l’autorizzazione (dagli anni ‘50), poi la concessione (dal 1970 per porre fine alla crescita degli impianti fino a 42mila) e di nuovo l’autorizzazione dal 1998), sarebbe tutto più semplice e, forse, ci aiuterebbe a mettere la parola fine all’illegalità diffusa più di ogni altra iniziativa “repressiva”.
Comunque, definito un nastro di partenza sul quale tutti i concorrenti siano messi in condizione di fare la stessa corsa con le stesse regole, allora si possono aprire tutti i ragionamenti su altre modalità contrattuali. Continuare a partecipare a “corse truccate” per dare l’idea ai distratti che esiste un mercato, non è nel nostro interesse!
Iupiter imposuit nobis duas peras: Giove ci fornì due bisacce, una grande e piena dei difetti altrui proprio sotto i nostri occhi e l’altra piccolina, contenete i nostri difetti, dietro le nostre spalle affinché non la vedessimo. Ecco, siamo proprio nelle condizioni narrate da Fedro: continuare ad additare i problemi degli altri, scordandoci dei nostri per non affrontare la realtà e costruire il futuro possibile.
E pensare che quando dieci anni fa promuovemmo l’iniziativa “Libera la Benzina” fummo duramente attaccati dai guardiani dell’ortodossia che, se avessero avuto la lungimiranza di guardare avanti, oggi ci avrebbero consegnato un mercato competitivo e senza illegalità. Peccato!
Ma questo appartiene ad un passato che nessuno vuole riproporre. “
ricordo al dott. Di Vincenzo che l’iniziativa libera la benzina fu osteggiata anche da una parte dei benzinai,se siamo in una
situazione drastica non dobbiamo dimenticare le nostre colpe
di operatori del settore