
Staffetta Quotidiana – Su gas, nucleare, auto a combustione, idrogeno
Dobbiamo smettere di produrre auto con motore a combustione interna nel 2035? Dobbiamo smettere di concedere nuovi permessi di esplorazione e produzione di idrocarburi? Per quanto tempo avremo ancora bisogno del gas naturale? E le relative infrastrutture devono essere considerate “di transizione” e quindi entrare nella tassonomia della finanza sostenibile? E gli investimenti nel nucleare? Di quanto idrogeno avremo bisogno nei prossimi anni?
Sono alcune delle questioni cruciali della transizione energetica su cui in questi giorni sono emerse interessanti novità, dal bla bla bla di Glasgow ma non solo.
Partiamo dall’auto. Il governo britannico, ospite della Cop26, ha messo sul tavolo un testo ambizioso basato sugli obiettivi che circolano di quando in quando sulla stampa – annunci di sindaci, proclami di capi di governo – relativi allo stop alla vendita di nuove auto con motore a combustione interna. La data sarebbe quella del 2035. Il risultato è stato un flop. Sotto il testo mancano infatti, tra l’altro, le firme dei due maggiori produttori mondiali di auto – Toyota e Volkswagen – e dei rappresentanti politici dei maggiori mercati mondiali – Stati Uniti e Cina in testa.
Sulla scelta di VW ha probabilmente pesato il durissimo scontro al vertice del gruppo tra il ceo Herbert Diess e la rappresentante dei lavoratori Daniela Cavallo – che siede nel consiglio di sorveglianza del gruppo – proprio su tempi e conseguenze in termini occupazionali del passaggio al “tutto elettrico”. Dopo settimane di tira e molla, sembra che la casa tedesca abbia dunque chiarito che ulteriori accelerazioni non sono praticabili.
Dinamica analoga si è registrata sul tema della produzione di idrocarburi. L’iniziativa “blocca trivelle” proposta da Danimarca e Costarica alla Cop26 – denominata Boga Beyond Oil and Gas Alliance – ha raccolto le firme di alcuni Paesi ma di nessuno tra i maggiori produttori. L’Italia ha espresso un “appoggio esterno” – era necessario? è utile? – in una certa misura contraddicendo quanto detto dal ministro Cingolani agli energivori una settimana fa sull’opportunità di aumentare la produzione nazionale di gas.
Un’iniziativa che riporta in primo piano tutti i limiti delle operazioni che vanno ad agire sull’offerta di energia lasciando sostanzialmente libera la domanda. Domanda che, invece di spegnersi e passare magicamente alle rinnovabili, semplicemente si rivolge a qualche altro produttore, magari anche meno attento a questi e ad altri temi – forse anche più importanti.
L’iniziativa presenta analogie con il tema del disinvestimento dalle società upstream, tema che nel momento in cui inizia a prendere piede mostra anche alcuni limiti. In settimana il Financial Times si chiedeva se il disinvestimento dalle fonti fossili da parte dei fondi fosse “the next big thing”, descrivendone la rapida diffusione ma allertando sui possibili rischi: ci sarà sempre – si leggeva nel lungo articolo – qualcuno disposto a comprare le azioni delle società upstream.
La crisi dei prezzi di questi ultimi mesi ha d’altronde dato una concretezza nuova alla questione del gas e del suo ruolo nella transizione. Tanto che anche negli stessi uffici della Commissione si riconosce ormai apertamente che rispetto solo a pochi mesi fa, quando il gas era visto in uscita dal quadro in quanto fossile, è in atto una correzione di prospettiva, complice anche l’impatto brutale della crisi dei prezzi.
Il fantasma dell’idrogeno ha assunto anch’esso connotati più precisi – per quanto non meno visionari – con l’iniziativa degli industriali tedeschi che a fine ottobre hanno messo nero su bianco i numeri della decarbonizzazione. Al 2045 serviranno 240 TWh di idrogeno verde di cui circa 130 TWh da importare via tubo da Europa meridionale e Nordafrica. Serviranno inoltre 300 TWh di e-fuel per trasporti e chimica di base. E serviranno, per spegnere le centrali a carbone, 43 GW di nuove centrali a gas al 2030.
Sulla base di queste considerazioni si capisce anche perché lo scontro sulla tassonomia europea della finanza sostenibile si faccia via via più intenso, in particolare con una vera e propria frattura tra Francia e Germania su gas e nucleare. La ministra dell’Ambiente tedesca Svenja Schulze ha detto ieri che “includere il nucleare nella tassonomia della finanza sostenibile ne minerebbe la credibilità”. Il presidente francese Emmanuel Macron, dal canto suo, ha rilanciato sulla costruzione di nuove centrali, con una sterzata non indifferente rispetto alle precedenti posizioni.
Com’era prevedibile, molti nodi stanno venendo al pettine e la realtà sta reclamando il suo tributo.
Per gentile concessione di Staffetta Quotidiana
e dei benzinai in questa trasformazione non ne parla ness’uno neanche la triade e compani