Staffetta Quotidiana – Gabriele Masini e Gionata Picchio – Intervista a tutto campo a Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica
Dal mandato di Draghi (Pnrr, Semplificazioni, Mite, G20, Cop26) alla “barra dritta” su protezione dei vulnerabili, neutralità tecnologica e transizione come sfida globale, dai rapporti con sindacati e Confindustria alla necessità di una transizione flessibile; dal “caso” Cite sullo stop ai motori termici alle frecciate a Norvegia Germania; il ruolo di Eni e la Ccus; le proposte contro il caro energia; il ruolo dello Stato e del mercato nella transizione; la Commissione Via Pniec-Pnrr. In questa intervista il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani traccia un bilancio di dieci mesi da “politico”: “abbiamo centrato gli obiettivi posti da Draghi prima del compimento dell’anno”, dice. “Ora c’è un problema di implementazione. E questa fase non ha bisogno di uno con il mio profilo”. Per il 2050 “dobbiamo avere la forza e il coraggio di investire in ricerca, sviluppo, cultura e formazione, e di rivedere costantemente il nostro piano, perché quello che oggi è impossibile potrebbe essere possibile fra 13 anni”.
UN TECNICO PRESTATO ALLA POLITICA
Nel governo Draghi lei è un tecnico prestato alla politica. Qual è l’aspetto più significativo di questa nuova esperienza?
Non mi sento politico e non riuscirò mai a sentirmici. Ma se ti trovi in una posizione in cui devi fare, o contribuire a fare, scelte importanti per il futuro, diventi politico nel senso che sai che qualunque azione ha delle conseguenze che non sono solo per te e per la tua famiglia ma anche per tanti altri. Questo è il livello “alto” della definizione di “politico”. Per il resto, non ho un partito, non mi hanno votato. Però ho imparato una lezione importante sul ruolo del Parlamento e sulla sua importanza, un ruolo che non viene percepito se vieni da un altro mondo. Io ho fatto il ricercatore fino a meno di un anno fa e ho capito quanto è importante la garanzia di un Parlamento cui racconti e spieghi ma poi sai che sono i parlamentari che fanno analisi e controanalisi e alla fine decidono. Questa è stata la parte politica del mio lavoro.
Quali sono le competenze che ha dovuto acquisire?
Non essendo una persona “scafata” dal punto di vista politico, l’unica cosa cui potevo fare ricorso è il buon senso. Per essere politicamente accettabili bisogna avere buon senso. Molto spesso mi sono trovato di fronte a persone e situazioni che ho affrontato con una logica non da politico ma da padre di famiglia. Il presupposto è che stai parlando con familiari-cittadini con cui dovresti avere interessi comuni, quindi cerchi di fare la cosa giusta, che non è necessariamente quella che reputi migliore. D’altronde, ho potuto godere di una situazione fortunata: tutti sanno che sono un tecnico, che non rimarrò a fare il politico e quindi tutto sommato ho la possibilità di parlare oltre gli schieramenti e le ideologie. Detto questo, sono molto soddisfatto dei rapporti che ho instaurato. Mi sono anche scontrato con gente cattiva, con muri ideologici formidabili e soprattutto con una capacità di mentire che mi ha scosso. Ero convinto che si mentisse partendo da un seme di verità e costruendoci sopra una storia più o meno convincente. Mi colpisce invece quando la gente mente da zero.
Questa riflessione ricorda quanto ha detto in occasione della presentazione del Manifesto su energia e lavoro di Confindustria Energia e sindacati: all’inizio della sua esperienza da ministro si è confrontato con chi proponeva soluzioni “digitali”, per cui sembrava bastasse premere un interruttore per avere la transizione; in seguito è riuscito ad affrontare un discorso più articolato con le parti sociali.
Confermo. E posso dire anche perché: più lavori, più hai un ruolo e più sai che non esistono soluzioni “digitali”. Quando invece fai l’ideologo sul lavoro degli altri, è facile schematizzare. Sono profondamente contento del rapporto che sono riuscito a instaurare con i sindacati e Confindustria. Nell’accezione comune sono considerati punti opposti ma non lo sono affatto. L’uno senza l’altro non avrebbe ragione di esistere, il “ceppo genetico” è uguale. Il successo dell’uno è il successo dell’altro. La transizione ecologica va fatta insieme, va discussa con tutti, nessuno deve essere lasciato indietro. Io non ho dovuto seguire una strada preordinata. Ho concertato con il presidente Draghi alcune scelte di massima e di tenere la barra dritta sui grandi impegni internazionali.
IL MANDATO DI DRAGHI
Qual è il mandato che ha ricevuto dal presidente?
Il primo compito era scrivere il Pnrr, o almeno contribuire pesantemente, visto che la transizione ecologica è centrale per il successo del Pnrr, per la sua approvazione, per il suo finanziamento e per la bella figura dell’Italia. Io ho gestito grandissime infrastrutture di ricerca con migliaia di persone e progetti miliardari, quindi so come scrivere un programma tecnico, e ho una esperienza internazionale che mi è stata utilissima. Ho una capacità manageriale, per via delle mie precedenti esperienze, che mi è stata molto utile. Questa prima missione credo sia andata bene. Abbiamo fatto un figurone, ce lo dice l’Europa, e i soldi sono arrivati.
L’obiettivo numero due era costruire la struttura ministeriale del Mite. Anche qui la capacità organizzativa e manageriale è stata utile. Quando sono arrivato il ministero aveva un bilancio annuale di 1,2-1,3 miliardi, quasi tutte spese fisse. Oggi, e per i prossimi 5 anni, il bilancio è da 16-17 miliardi, sostanzialmente per via del Pnrr. In questo siamo più simili a una società quotata in Borsa che a un ministero, pur non avendo le stesse strutture di project management, e questo è un limite. Aver potuto fare un nuovo ministero è stato un vantaggio enorme perché solo così si possono introdurre nuovi uffici. Io ho introdotto un dipartimento che si occuperà solo di Pnrr per cinque anni. Ho introdotto la parte digitale e il project management. Anche questo secondo obiettivo è stato abbastanza centrato. Adesso arriveranno le persone, anche se ci è voluto qualche mese in più del previsto.
Il terzo task riguarda le semplificazioni. La legge c’è. Abbiamo costituito la Commissione ad hoc. Qualcuno si è lamentato che la Commissione Pnrr fosse in ritardo, ma non è vero. Abbiamo fatto tutto nei tempi, poi però serve l’autorizzazione della Corte dei conti per i membri. Abbiamo fatto tutto nel periodo da febbraio a dicembre. Si può sempre essere più veloci, ma come risultato non è male.
Quando partirà al Commissione Via Pniec-Pnrr?
In queste ore è atteso l’ok della Corte dei conti per il presidente e a quel punto potrà partire coi 30 membri già designati, gli altri arriveranno in corso. Tutto sommato ci abbiamo messo 4 mesi, un periodo lungo perché la Corte dei conti doveva dare l’autorizzazione, però non ci abbiamo messo un anno e mezzo.
Torniamo agli obiettivi.
Il quarto obiettivo era il G20: è stato un successo globale che ci è stato riconosciuto in tutto il mondo. La leadership italiana nel G20 – non solo su energia e ambiente ma tutto il G20 di Draghi – ha avuto un riconoscimento internazionale elevatissimo.
Il quinto task era la Cop26 come co-chair. I grossi risultati della Cop26 discendono direttamente dal lavoro del G20 energia e ambiente.
Questi erano i task. Siamo arrivati prima del compimento dell’anno e direi che li abbiamo centrati. Ora c’è un problema di implementazione. E questa fase non ha bisogno di uno con il mio profilo.
Prima ha parlato di alcune “scelte di massima” concordate con Draghi. Di cosa si tratta?
La protezione dei vulnerabili, la neutralità tecnologica e il fatto che la transizione è una sfida globale. Io ho spinto moltissimo sul fatto che la transizione ecologica è importantissima ma deve essere sostenibile. Che nessuno sia lasciato indietro è importante tanto quanto l’obiettivo di 1,5 o 2 gradi. Mi sono preso questa responsabilità e anche gli strali. Quanto alla neutralità tecnologica, il primo ministro ha una visione assolutamente chiara. Se nel 1990 qualcuno avesse chiesto di fare un programma sulle telecomunicazioni e il digitale, non avremmo nemmeno potuto immaginare un futuro a 30 anni in cui registravamo un’intervista con lo stesso apparecchio con cui telefoniamo, facciamo le foto e mandiamo le email. Avremmo fatto un progetto sicuramente vecchio. Nel 1990 avrei detto di programmare fino al 2000 in modo incrementale, per poi darci un grande obiettivo ambizioso dopo il 2000. Nel 2020 ci è stato detto di salvare l’umanità con un progetto a 30 anni. Oggi abbiamo pale eoliche e solare. Abbiamo fatto un piano al 2030 super sfidante. Ma per il 2050 dobbiamo avere la forza e il coraggio di investire in ricerca, sviluppo, cultura e formazione, e di rivedere costantemente il nostro piano, perché quello che oggi è impossibile potrebbe essere possibile fra 13 anni. Questo ci siamo detti. In questo senso Draghi è il simbolo di un governo illuminato che sa che deve stringere la cinghia e affrontare una sfida pazzesca a 10 anni, e nello stesso tempo spera in un’evoluzione che ci faciliterà la vita al 2050.
E al livello internazionale?
Abbiamo portato al G20 e alla Cop26 l’istanza per cui se non riduciamo le disuguaglianze globali è inutile combattere il cambiamento climatico solo in 20 Stati su 208, anche se insieme rappresentano l’80% delle emissioni di gas serra. Questa è la “barra dritta”. Quando Draghi ha fatto il richiamo al multilateralismo, quando ho spinto tanto sulla questione del fondo da 100 miliardi, non era un modo chic di dire che siamo tutti uguali. Era piuttosto un discorso “termodinamico”. Se ai tre miliardi di persone che sono nei Paesi poveri e vulnerabili non diamo loro l’energia per evolvere, li stiamo condannando. Se gli diamo quell’energia, quell’energia produrrà CO2 che dovremmo inserire nei nostri algoritmi di decarbonizzazione. Queste sono scelte geopolitiche fondamentali. Alla Cop26 non si è raggiunto l’obiettivo dei 100 miliardi di dollari, non riusciamo ad attrarre i fondi privati, eppure cianciamo di damage and loss. Eppure quando c’è un evento estremo si muore più nei Paesi vulnerabili che da noi. In questo la mia fedeltà all’idea che sta sviluppando Draghi è assoluta. Stiamo parlando di una rivoluzione globale: non c’è posto per chi mi offre una soluzione semplice per cui basterebbe premere un pulsante. Questo è un modo di distrarre dai problemi reali, è un modo “locale” che potrebbe forse funzionare per l’Italia. Ma non può bastare in assoluto perché stiamo parlando di un problema globale. E noi abbiamo una responsabilità e una leadership mondiale.
IL “CASO” CITE SULLO STOP AI MOTORI TERMICI
A proposito di neutralità tecnologica, viene in mente il recente annuncio del Cite sullo stop alla vendita di auto con motore termico al 2035. Cosa è successo? Cosa è stato deciso in quella sede?
Al Cite non abbiamo deciso, il Cite non decide: è un organismo che dà linee guida su cui poi aprire il dibattito politico. È il Parlamento che decide. Noi abbiamo detto: per noi, come per la Francia e per chi ha una grande manifattura automotive, è ragionevole il phase out del motore a scoppio nel 2035 per le auto e nel 2040 per i furgoni. Questa è la strada più conservativa, tipica dei Paesi che producono auto. Quelli che non producono auto si possono permettere di essere più flessibili: fanno le rinnovabili, mettono le colonnine e aspettano noi, Paesi che abbiamo milioni di lavoratori in quel settore, che acceleriamo l’offerta di mezzi elettrici. È una normalissima dinamica che in ambito europeo è comprensibilissima. Al Consiglio Energia ho detto che la rivoluzione verde deve essere ambiziosa e che l’ambizione deve essere sostenibile. Tutto qua. Dal Cite è emerso questo.
La posizione è stata discussa e concordata con il ministro Giorgetti?
Ne abbiamo parlato. È ovvio che lui deve dare un segnale forte a quel mondo che nessuno vuole penalizzare. D’altro canto io devo dare un segnale forte al mondo che reclama una transizione ecologica chiara, forte ed efficace. Le due cose insieme sono compatibili avendo un orizzonte temporale non troppo lontano e non troppo vicino.
A livello europeo il dibattito si va scaldando. Il pacchetto Fit for 55 di fatto propone uno stop ai motori termici al 2035.
Su questo bisogna essere estremamente pragmatici. I Paesi che non producono macchine e non hanno una filiera automotive dicono: stop ai motori termici al 2030. Per lo più si tratta di Paesi piccoli e benestanti. Paesi che magari vendono petrolio e poi ci dicono che hanno il 60% di Tesla. Però i grandi Paesi che producono automobili e hanno una filiera automobilistica – Francia, Germania, Italia, Spagna – se accelerano troppo su quel fronte fanno una catastrofe sociale. Io non sono un grande simpatizzante della diplomazia, anche se il buon senso richiede che il rappresentante di un grande Paese ai tavoli internazionali non si metta a fare polemica. Ma ci sono anche grandi Paesi che producono auto, che hanno aumentato la produzione di carbone e poi ci fanno la lezione “verde”. Noi abbiamo solo gas e rinnovabili nel nostro mix elettrico. L’energia e la manifattura hanno una storia complessa e diversa da Paese a Paese. In più, in questo momento nessun Paese ha sufficiente energia elettrica verde per caricare le auto elettriche che vorrebbe. E finché non abbiamo elettricità verde stiamo solo scherzando, facciamo finta di essere rinnovabili. Non ci sono abbastanza batterie, e questo è il principale collo di bottiglia, come ha detto anche Akio Toyoda, il capo della Toyota. Dobbiamo investire di più nel settore batterie, anche in ricerca e sviluppo, perché non si può pensare di andare avanti a cobalto e litio. A fronte di questi problemi, il dilemma tra 2030 e 2035 quasi non fa differenza. Dobbiamo accelerare e vedere cosa ci porta nel frattempo la nuova tecnologia. Il Cite ha dato un’indicazione che è il punto di partenza per il confronto sul Fit for 55.
Il problema è sempre quello del “frattempo”. Cosa facciamo intanto per ridurre le emissioni?
In questo momento in Italia abbiamo 35 milioni di auto di cui 10-11 milioni sono euro 0-4. Io comincerei a cambiare subito questi veicoli. La transizione comincia anche passando a mezzi euro 6. Così si arriva al 2030 e poi si vede. Poi serve un programma di lungo termine per l’industria automotive e la sua riconversione.
Nell’ultimo Consiglio Energia ha espresso una posizione che sembrava di maggiore cautela rispetto allo stop alla vendita di auto con motore termico al 2035.
È più un invito all’onestà intellettuale, non c’è cautela. Io ho obiettato che se qualche Paese che vende petrolio mi dice che vado tutto con le Tesla, mi fa un po’ ridere. Soprattutto se sono quattro gatti e gli basta mettere sei colonnine. Quella è una soluzione “digitale” che, come succede spesso, localmente può anche essere valida. Ma quanti veicoli sporchi ci sono in Francia, Italia, Nord Africa, eccetera? Il processo di transizione dura come minimo dieci anni. Un chilo di batteria grosso modo ha 200 wh di energia, un chilo di benzina ne ha dieci volte tanta. Se ho un motore che va a benzina ho un serbatoio con 50 chili di benzina. Per avere lo stesso risultato mi servono 500 chili di batterie. Finché non avremo una batteria che accumula più o meno come la benzina, 2.000 wh per chilo, sarò sempre in inferiorità, avrò un mezzo più pesante, problemi di materiali eccetera. Perché gli aerei non possono andare a batteria? Perché quando decolli ha bisogno di 2 MW. Se per fare 2 MW devo mettere 5 tonnellate di batteria, l’aereo deve volare senza pilota perché può portare solo il suo stesso peso. A fronte di questo, una soluzione a biofuel ibrida può essere buona nel frattempo. Prima di passare alla Tesla, io “povero” posso buttare il mio euro 0, prendere una euro 6 usata e ho un vantaggio ambientale che probabilmente è migliore di quello che ho passando dalla euro 6 alla Tesla. Insomma, non c’è una soluzione unica per tutti. La transizione vuol dire avere soluzioni locali che possono valere per un tempo determinato. I biocarburanti non sono una forma di cautela ma di onestà. Se in Nord Africa riuscissimo a mettere su strada tutti mezzi euro 6, sarebbe già un buon risultato. Poi in Norvegia andiamo 100% elettrico, in Italia 50-50 nel 2040 e così via.
Il settore della raffinazione chiede che prima di annunciare il phase out sia indicato un orizzonte ragionevole per la transizione, compatibile con gli ingenti investimenti necessari ad esempio per sviluppare i biocarburanti. Qualcosa di simile chiede anche la componentistica: un piano di conversione delle attuali produzioni in quelle nuove.
Su questo però ho qualche dubbio perché non può essere lo Stato a fare il piano per un imprenditore che sta sul mercato. Lo Stato può dare gli incentivi ma il piano spetta al mercato. Su questo bisogna stare un po’ attenti: come si fa a centralizzare il piano tecnologico? Bisogna dare una mano, questo sì, e mai come in questo momento, come ho già detto, bisogna potenziare la ricerca e lo sviluppo.
Sempre al Consiglio energia ha messo un forte accento sul criterio del life cycle assessment, del calcolo delle emissioni sull’intero ciclo di vita.
In Europa sono stato molto chiaro: noi ci crediamo e il senso è proprio evitare che prevalgano soluzioni “digitali”.
Ma c’è qualche apertura da parte della Commissione? Zero emissioni oggi in UE significa di fatto solo elettrico.
Potrei rispondere che con gli investimenti che ci sono in questo momento sull’auto elettrica, nessun maggior produttore dirà mai “sì proviamo anche qualcosa di alternativo”. Secondo me però, e qui torna il tema del buon senso, il concetto di transizione può per un certo numero di anni aprire delle possibilità. Poi sta ai regolatori, quindi alla Commissione Europea, prendere atto che se queste soluzioni si rivelano oggettivamente buone e in una life cycle assessment analysis restituiscono buoni numeri, allora si fa sempre in tempo a riconoscere che funzionano.
Insomma, non chiudere la porta alle alternative.
Posso fare una provocazione? Supponiamo che domani un Elon Musk che ancora non conosciamo porti le tecnologie che catturano la CO2 dall’aria e la trasformano in carbonato di calcio (quindi in ghiaia) a fare non 4 milioni di tonnellate all’anno come ora bensì 40 miliardi. Uno scenario – oggi assolutamente fantascientifico – in cui si produce una macchinetta che già mentre si emette la CO2 la rimuove trasformandola nel nuovo cemento. A quel punto perché fare la transizione? Si potrebbe continuare a bruciare petrolio, gas eccetera, tanto il risultato è zero netto, non si perde un solo posto di lavoro e si evitano complicazioni. È ovviamente una provocazione, ma il punto è che su certe cose dire no a priori è sbagliato. Si può dire “facciamo tutti l’elettrico”, è sicuramente una strada tracciata, ma non è un motivo per escludere che, in specifici luoghi e per specifici periodi, certe soluzioni possano essere utili, perché le circostanze di partenza sono diverse per i diversi Paesi.
ENI E LA CCUS
Parliamo di Ccus, che in Italia ha un nome: Eni. E lei lo sa bene, visto che alcuni l’hanno ribattezzata “CingolEni”.
Lo so e non ho capito perché. Se c’è stato uno che ha detto no a Eni, quello sono stato io. Nel Pnrr non ho messo un solo progetto di Eni. Piuttosto dovrebbero avercela con me.
C’era la Ccs nella versione iniziale del Piano…
Esatto, io invece ho tolto tutto. Ripeto: forse era l’Eni che doveva avercela con Cingolani. Poi non c’è problema, per carità, ho un ottimo rapporto con Descalzi. Però mi ha un po’ meravigliato questa cosa.
Secondo alcune ricostruzioni la Ccs a Ravenna fu tolta dal Piano nel corso della trattativa con la Commissione.
Posso raccontare com’è andata? Quando siamo arrivati, a febbraio, c’era un sacco di roba raccolta in 650 pagine di proposte e dati. Nel frattempo sono arrivate le linee guida europee che, nero su bianco, hanno detto che col Pnrr non si finanzia la Ccs. “Ve la potete fare con i soldi dei contribuenti”, c’è scritto, non col Piano di ripresa. Come non si potevano finanziare solare e eolico semplici, ma solo in soluzioni innovative come agrovoltaico e comunità energetiche. Chiarito questo, appena arrivato ho fatto un incontro con tutte le major e all’Eni ho spiegato che quella cosa non potevo farla. Ovviamente l’hanno capito.
La polemica però continua…
C’è un po’ di folklore, ma lasciamolo perdere. Il processo di mettere la CO2 sotto terra è contestato da una parte degli interessati: alcuni dicono che è solo un modo surrettizio di pressurizzare i giacimenti maturi per estrarre l’ultimo petrolio rimasto – e mi verrebbe da dire che se così fosse ci vorrebbe poco a controllarlo e bloccarlo. Altri parlano di possibili problemi di natura sismica. Su questo alzo le mani: ho parlato con i sismologi ed è un discorso delicato, le evidenze non sembrano esserci. È la classica questione che se non fosse ideologizzata ci andrebbe fatto un assessment. Comunque il problema non si è posto perché queste iniziative non si possono pagare col Pnrr.
E se qualcuno vuol farselo da sé qual è la posizione del Mite?
Se una multinazionale vuole presentare un progetto seguendo le regole dello Stato, durante le procedure di autorizzazione si verifica che non c’è pericolo e la vuol fare coi suoi soldi, nessuno può impedirglielo. Non si può pretendere che il ministero influenzi le autorizzazioni né in un verso né nell’altro. Le autorizzazioni le danno entità terze, a valle di istruttorie tecniche, non le facciamo noi. Altrimenti come ministro potrei dire “questo sì, questo no”.
LE RISPOSTE AL CARO ENERGIA
Il caro energia è diventato un’emergenza: cosa si può fare nell’immediato?
Se per immediato intendiamo un orizzonte di 18-20 mesi, bisognerebbe aumentare la nostra produzione interna di gas. Non parlo di aumentare i consumi complessivi, ma se potessimo aumentare fortemente la nostra aliquota, raddoppiando gli attuali 4,6 miliardi di mc – il che richiede 18 mesi utilizzando i pozzi già esistenti – potremmo intanto risparmiare stoccaggi e fare un accordo con le partecipate per venderlo alle imprese non a prezzo di mercato, bensì a condizioni scontatissime. Sono certo che Eni una cosa del genere sarebbe disposta a farla. Poi certo bisogna cambiare l’energy mix, che però non si fa in un anno. Qualcuno dice “prima facciamo le rinnovabili e prima siamo indipendenti dal gas”. Sono assolutamente d’accordo, però ci dobbiamo arrivare. Per quattro anni direi intanto a Eni di estrarre tutto quello che è possibile.
Nel frattempo cresceranno le rinnovabili.
Anche se un conto è l’obiettivo del 55% al 2030, un altro è dire solo rinnovabili dopo. Si fanno ottimistiche previsioni sugli accumulatori. Una cosa è accumulare dei MW, altro dei GW per un distretto industriale in Brianza. Anche in questo caso vale il discorso di prima: magari tra cinque anni verrà fuori una tecnologia con cui risolviamo tutti i problemi. Il fatto però è che l’accumulo non va visto solo sulle 4, 6 o 12 ore ma anche sull’alternanza estate inverno.
In ogni caso, quella sul caro energia non è una riflessione che si fa a tavolino. Bisogna vedere quello che succede nei prossimi 5-6 mesi col gas: ad esempio, se non parte il Nord Stream il gas resterà a prezzi folli. Non è un problema solo nostro ma geopolitico e di dimensione globale.
Intanto cosa farà il Governo per contenere le bollette?
Per ora, in attesa di vedere come si sviluppa la contingenza, abbiamo iniettato miliardi proteggendo soprattutto le categorie vulnerabili. A regime si può spostare la componente incentivi della bolletta sul pubblico, andrebbe sempre sul debito ma almeno non si ha la percezione di pagarla ogni bimestre. Ma questo va discusso con l’Europa. Si può fare uno spalma-incentivi, ma senza andare oltre il 2034 perché poi gli impianti sono ammortati, così si libera qualcosina. Si possono cartolarizzare gli incentivi, ma bisogna fare un’analisi finanziaria. O ancora si può tagliare l’Iva, ma anche quello va discusso con l’Europa.
E gli “extraprofitti” di cui ha parlato Draghi?
Un’alternativa di cui si è parlato in Europa è questa: perché per una produzione idroelettrica che ha l’impianto ammortato e acqua gratis paghiamo il prezzo del gas del giorno prima? Come ha detto anche Draghi, se la situazione collassa, così come noi paghiamo di più la bolletta, andiamo meno in macchina, spegniamo il condizionatore, anche qualcun altro dovrà metterci del suo. Si potrebbero rivedere le quotazioni dell’energia con dei meccanismi più ragionevoli. Un tempo il sistema attuale aveva senso perché le rinnovabili avevano un costo altissimo, oggi è il contrario e diventa un extraprofitto. Non è fatto per danneggiare le nostre aziende, ma anche questa cosa va discussa, come tutte le altre: qualunque direzione scegliamo dovremo fare dei patti con qualcuno, la Commissione UE, i cittadini o altri.
L’aumento dei costi dell’energia può frenare la transizione?
La UE si è posta come leader nel mondo: siamo i più puliti e tutti ce lo riconoscono. Gli Usa hanno fatto in parte retromarcia, ricominciando a pompare petrolio e carbone, la realpolitik ha fatto saltare il piano di Biden davanti al rischio di perdere posti di lavoro. Però il compito di essere i primi della classe in una UE così diversa per energy mix, cultura eccetera è arduo. La Commissione fa bene a tenere l’asticella alta, ma sono anche convinto che se dovesse vedere che la situazione è insostenibile – non perché lo sia la transizione ma perché sul gas c’è un problema – allora dovremo fare dei conti. Abbiamo delle sfide enormi, vogliamo fare l’acciaio verde ma costa quattro volte quello cinese e poi dovremo convincere gli acquirenti a non comprare un mezzo che costa meno perché fatto con acciaio non verde. Da un lato c’è il libero mercato, dall’altro la transizione ecologica.
IL RUOLO DELLO STATO E DEL MERCATO NELLA TRANSIZIONE
Con la transizione il ruolo del mercato uscirà ridimensionato?
Prima o poi si arriverà al punto di chiederci quali sono le priorità: se la gente muore di fame o di catastrofi climatiche, ci interessa il libero mercato? Assomiglia al caso in cui un iPhone abbia registrato il video di un assassinio, ma non si consente di sbloccarlo per rispetto della privacy. Prima o poi le priorità dovranno essere stabilite. Il punto è quale prezzo si dovrà pagare per arrivare là. Non dobbiamo arrivare a un costo insostenibile.
E quale sarà invece il ruolo dello Stato?
Voglio sperare che succeda sempre come per il digitale, dove il mercato ha trainato il cambiamento, ma il mercato dell’energia è più statico. Dopo questa “zona di comfort” dei fossili, che ci ha consentito di crescere e prosperare – e ha creato anche tante disuguaglianze – ora il mercato dell’energia deve capire che deve uscire da questa zona e innovare. L’Eni sta facendo innovazioni pazzesche, molti altri stanno seguendo quella strada. Non si può pensare che sia lo Stato a fare disegni innovativi a tecnologia costante, ossia “a fossile costante”, né pensare che l’incentivo possa essere una soluzione per sempre. Bisogna proprio cambiare passo, persino sulle rinnovabili: vince chi innova e lo Stato deve aiutare questo processo.
Anche attraverso le partecipate?
Come diceva Mario Draghi ieri (lunedì 20 ndr) bisogna rivedere anche il concetto di aiuto di Stato, perché è chiaro che se aiuto un’azienda non a fare più profitto ma a investire su un futuro molto incerto, quello non è aiuto di Stato. Quando voglio fare una gigafactory o investire in qualcosa di altamente pionieristico, che potrebbe cambiare il panorama energetico e aiuto, per fare un esempio, l’Agip o la Total, non è aiuto di Stato, è interesse del mondo. Anche qui è un fatto di priorità: le società energetiche non lavorano solo per fare soldi ma anche per trovare soluzioni globali. Ecco perché da un lato gli si dice che forse il 70% di Ebitda è un po’ troppo, ma siamo anche consapevoli che attraverso di loro ci può essere il vero grande cambiamento. Le priorità naturalmente devono essere stabilite dagli Stati e dall’Europa.
I DOSSIER SUL TAVOLO
Veniamo ad alcuni dossier specifici: il decreto biometano è stato inviato a Bruxelles?
Partirà a breve.
A che punto è la strategia sull’idrogeno?
Quella c’è già: un’altra delle prescrizioni delle linee guida europee era che col Pnrr si potesse fare solo idrogeno verde. Mi hanno pressato molto su questo, non andava bene a nessuno, ma non ci posso fare niente. Per fare l’idrogeno verde però se non ho il mio 70% di rinnovabili sul mix elettrico, gli elettrolizzatori con cosa li alimento, col carbone? Quindi stiamo partendo con la hydrogen valley, la gigafactory per gli elettrolizzatori, le stazioni di servizio a 350 e 700 bar, ma bisogna aspettare le aste per rendere l’idrogeno più verde possibile.
Le aste per rinnovabili quando arriveranno?
Usciranno a brevissimo (ieri il Gse ha comunicato il calendario ndr). C’è urgenza, abbiamo sbloccato 3 GW bloccati ne abbiamo altri 6 pronti. Dobbiamo fare 8 GW all’anno.
I progetti arrivano, comunque, sia per l’eolico che per il fotovoltaico. Il mercato sembra crederci.
Siamo informati di un backlog di 30 GW: vuol dire che se facciamo delle buone aste con buoni criteri, abbiamo risolto il problema delle aste deserte. Dobbiamo essere rapidissimi, la Commissione Via Pnrr avrà 40 persone dedicate 7 giorni su 7, poi speriamo che con i territori si identifichino efficacemente le aree idonee. Stiamo identificando discariche dismesse, zone militari dimesse, siti orfani, dobbiamo occupare tutto quello che è “trasandato”, stiamo lanciando il programma agrvoltaico, le energy community, è una strategia integrata.
Un bilancio conclusivo?
Ieri ho chiuso l’intesa con le Regioni sul piano nazionale sull’inquinamento. Quella sul Pitesai è arrivata la settimana scorsa. Chiudiamo l’anno facendo l’en plein, siamo perfettamente puntuali e non abbiamo ancora avuto il rinforzo di una sola persona. Il nuovo personale arriva adesso. Non sono un ottimista, in generale sono sempre insoddisfatto, ma possiamo chiudere l’anno dicendo che non siamo andati male.
Però non vede la politica nel suo futuro?
Io? Io adesso, appeno ho finito, mi dovrò trovare un lavoro.
Per gentile concessione di Staffetta Quotidiana