Ieri ho fatto una confessione. Con uno sconosciuto, un cliente, purtroppo, ho parlato male — ancora una volta — della compagnia.
È stata come una molla che scatta all’improvviso: al racconto di un amico che aveva preso un impianto, mi è uscito di getto che l’appalto non è un buon contratto. Lui (il cliente), quasi a conferma, ha risposto che diversi colleghi si lamentano. E io, senza riuscire a trattenermi, ho aggiunto qualcosa sugli atteggiamenti degli assistenti rete.
La verità è che ho troppa rabbia dentro. Una rabbia che non si placa, che si mescola alla stanchezza. Mi verrebbe voglia di mollare tutto, già ora. A volte mi sento io quello sbagliato, come se fossi io a non essere più adatto.
Ma so che non è così. Cercherò di restare calmo, di tirare fuori un briciolo di ottimismo e di mettere una pietra sopra, anche se è dura.
E questo non è solo il mio stato d’animo. È il sentimento di tanti gestori che vivono la stessa condizione: una rabbia silenziosa, un senso di tradimento che pesa più delle difficoltà economiche.
Un tempo, molti gestori si sentivano parte di un sogno: l’appartenenza alla grande famiglia Eni, Esso, IP, TotalErg, Shell. Compagnie dal marchio prestigioso, con un progetto da costruire insieme, fianco a fianco.
Oggi, quel sogno si è trasformato in un incubo. Un incubo fatto di contratti-capestro (gli appalti), di pressioni continue, di rapporti umilianti con responsabili commerciali che si comportano più da aguzzini che da assistenti.
Chi ha dato tutto — tempo, professionalità, passione, sacrifici personali e familiari — oggi si ritrova smarrito e spesso a mani vuote. Non solo: deve anche subire la beffa di essere trattato come un problema, invece che come una risorsa.
E allora diciamolo chiaro, la verità è che l’amarezza è talmente grande che non può essere nascosta . E se ogni tanto la rabbia esce fuori, non è una debolezza: è un atto di dignità.

