Benzina adulterata o nuovo errore? Quando i sequestri colpiscono (ancora) i gestori

La notizia riportata da La Nazione non poteva passare inosservata: “Benzina adulterata, 6.500 litri sequestrati in un distributore. Auto a rischio esplosione”. Un titolo forte, di quelli che si imprimono nell’immaginario collettivo e che, per un gestore, equivale spesso a una condanna mediatica immediata.

Secondo quanto riferito dal quotidiano, i controlli disposti dalla Procura di Prato e condotti dalla Guardia di Finanza, con il supporto dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, avrebbero riscontrato irregolarità nel carburante distribuito da un impianto in via Fratelli Cervi. Le analisi preliminari avrebbero evidenziato un “punto di infiammabilità anomalo”, giudicato potenzialmente pericoloso, inducendo così al sequestro del prodotto e all’iscrizione del gestore nel registro degli indagati per frode in commercio.

Una vicenda grave, certo. Ma che merita anche una riflessione più ampia: e se anche questa volta si trattasse di un errore, come già accaduto in più occasioni nel passato recente?

Negli ultimi anni, infatti, non sono mancati casi in cui controlli e campionamenti hanno prodotto esiti poi smentiti in sede tecnica o giudiziaria. Spesso, le difformità rilevate erano minime e di natura puramente tecnica, legate a fenomeni di “cross-contaminazione” tra gasolio e benzina durante il trasporto o lo stoccaggio nei depositi.

Una situazione ben nota agli operatori e più volte denunciata dalle associazioni di categoria, tra cui Assopetroli-Assoenergia, che hanno segnalato i danni enormi subiti dai gestori in termini di immagine, reputazione e conseguenze economiche, anche quando non vi era alcuna responsabilità diretta.

Come ricordato da Assopetroli-Assoenergia in una recente nota, “il punto di infiammabilità del gasolio non costituisce un parametro dirimente ai fini della commercializzazione”, come riconosciuto anche dal Ministero dell’Economia, che ha legittimato la presenza di piccole contaminazioni fisiologiche nella filiera logistica.

Il problema, dunque, non è solo tecnico ma istituzionale.
Negli anni si è creato un vero e proprio “cortocircuito” tra le diverse amministrazioni coinvolte — Mef, Agenzia delle Dogane, Guardia di Finanza — che ha finito per minare la certezza del diritto e la continuità operativa di un comparto già fragile.

E così, mentre si parla di transizione energetica e sostenibilità, il settore si trova ancora a dover fronteggiare un sistema di controlli poco coordinato, in cui un singolo test di laboratorio può compromettere la reputazione di un’intera azienda, o la vita professionale di un gestore che, spesso, non ha alcun potere di incidere sulla qualità del carburante che riceve.

Anche in questo caso, come già avvenuto in passato, il sospetto è che la colpa cada sull’anello più debole della filiera: il gestore.
Eppure, è noto che i carburanti arrivano già miscelati e certificati dai depositi fiscali, dove vengono caricati su autobotti e consegnati agli impianti sotto la supervisione della stessa Agenzia delle Dogane.

Prima di parlare di “frodi” o “benzina adulterata”, forse sarebbe il caso di attendere le analisi definitive e — soprattutto — di non dimenticare che dietro ogni impianto c’è un lavoratore, una famiglia e una reputazione costruita in anni di servizio.

La vicenda di Prato deve essere chiarita fino in fondo, ma resta il dubbio — legittimo — che si tratti dell’ennesimo episodio in cui l’errore tecnico o interpretativo si trasforma in danno reale per chi gestisce onestamente un punto vendita.

E allora la domanda resta aperta: quante altre volte dovremo leggere di sequestri e indagini prima che si metta finalmente ordine a una normativa che confonde l’anomalia tecnica con la frode?

Fino a quando ciò non accadrà, sarà sempre troppo facile puntare il dito contro chi, ogni giorno, eroga carburante… e non giustizia.

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Tony
Tony
6 giorni fa

Giustissimo!!!