Acquistavano carburante agricolo e lo rivendevano nelle cosiddette pompe bianche a prezzi ridotti

Un business milionario sui carburanti. Un sistema, con frodi su accise e Iva, intestazione fittizia di beni e truffa ai danni dello Stato, che era articolato dalla Lombardia fino alle principali città del Sud.

Con la camorra, i Casalesi e il clan pugliese dei Cicala in particolare, che si era fatta impresa acquisendo fette di mercato e società per la gestione del trasporto di idrocarburi e la vendita di benzina e gasolio nella rete delle cosiddette «pompe bianche».

L’organizzazione, ramificata tra Brescia e la Campania (Salerno, Napoli e Caserta) fino ad arrivare a Cosenza e Taranto, è stata smantellata da una operazione coordinata dall’Antimafia di Potenza e Lecce. Con i carabinieri e la guardia di finanza che hanno arrestato 37 persone (26 in carcere e 11 ai domiciliari) mentre sono 79 gli indagati. In carcere è finito anche un carabiniere, accusato di passare informazioni agli uomini del clan. Sequestrate società e beni per oltre cinquanta milioni di euro.

La camorra aveva deciso di investire, per il contrabbando di idrocarburi, in un territorio ritenuto poco al centro dell’attenzione mediatica e investigativa: l’area a ridosso tra Campania e Basilicata: in particolare nel Vallo di Diano, in provincia di Salerno. Ingenti quantità di benzina e gasolio erano acquistate come idrocarburi per l’agricoltura, soggette a prezzi ribassati e Iva al minimo, ma poi smistate nella rete delle pompe bianche – sempre controllata dal clan – con vendita a prezzi di mercato e guadagni enormi. Stimati in trenta milioni l’anno.

In Campania l’indagine è scattata nel 2018, per verificare l’esistenza di prestanome per controllare aziende in realtà nelle mani della camorra. L’attenzione degli inquirenti si è subito soffermata sulla holding del gruppo Petrullo, nel settore dei carburanti, che aveva avuto un boom economico notevole. Questa crescita coincideva con l’ingresso in società, con capitali occulti, della famiglia Diana di San Cipriano d’Aversa, nel Casertano. I cui componenti, in passato, erano stati coinvolti in un notevole giro illecito di rifiuti e ritenuti vicini al clan dei Casalesi. I Diana erano quindi entrati in affari con Massimo Petrullo, titolare della società di carburanti e ritenuto, dagli inquirenti, «avamposto dei Casalesi» nel Vallo di Diano.

Oltre a rendere marginale il ruolo dei Petrullo, situazione che stava quasi scatenando una faida con il tentativo di assoldare un killer per uccidere Raffaele Diana, l’ala casertana dei Casalesi aveva acquisito immobili e società nel Vallo di Diano riuscendo a diventare gruppo industriale di riferimento della zona. Il rischio di una guerra tra l’ala tarantina, con la quale Petrullo si era alleato, e i Diana stava rischiando di diventare concreta. Ma poi gli interessi commerciali hanno avuto prevalso sugli attriti tra i gruppi.

Sul fronte pugliese, la base dell’organizzazione criminale era a Taranto. Con il clan che si era ricompattato intorno alla figura di Michele Cicala, già condannato per associazione a delinquere ed estorsione, che aveva legami con il clan tarantino dei Catapano-Leone. Il gruppo di Cicala ha evidenziato, nel tempo, la capacità di trarre profitti milionari dal traffico di carburanti e di reinvestirne in gran parte in altre attività commerciali. Facendo leva su prestanome e sulla violenza per costringere i reali titolari a cedere le loto attività.

Il clan riusciva a conoscere in anticipo controlli e indagini grazie a un carabiniere”infedele” che li informava puntualmente. Il militare, arrestato, otteneva in cambio numerose taniche di benzina che rivendeva a terzi. Già nel 2019, il comando dei Carabinieri, alla notizia riservata di verifiche sul ruolo del militare, lo aveva trasferito dal territorio salernitano.

Per aggirare i controlli, la benzina acquistata per uso agricolo doveva comunque essere “virtualmente” venduta a imprenditori di questo settore, il clan pugliese forniva ai Casalesi un elenco di nominativi le cui identità e i libretti Uma (utenti motori agricoli) venivano clonate per far risultare il passaggio della benzina e del gasolio. Con questo passaggio, il gruppo criminale poteva poi rivendere gli idrocarburi con un guadagno medio del 50% per ogni litro che veniva ceduto attraverso le pompe bianche. Attraverso un complesso sistema informatico, il clan era riuscivo anche a ingannare il sistema telematico dell’Agenzia delle Entrare che così non era in grado di consegnare la fattura elettronica: in questo modo l’imprenditore agricolo che risultava l’intestario fittizio dell’acquisto di gasolio restava all’oscuro dell’operazione.

Il carburante usciva dai depositi con documenti che attestavano l’uso agricolo. Ma la cosiddetta benzina agricola ha una colorazione diversa rispetto a quella per le normali autovetture. Gli autisti delle cisterne avevano a disposizione, all’interno dell’abitacolo del camion, una pompa di emergenza. In caso di controllo da parte delle forze dell’ordine, veniva iniettato un colorante nella cisterna. In questo modo la benzina risultava più scura e quindi analoga a quella agricola. In assenza di controlli, invece, il camion arrivava al deposito delle aziende dei clan e da qui iniziava la distribuzione a nero.

Il gruppo criminale era riuscito ad ampliare i propri affari anche in Calabria, ottenendo l’appalto per la fornitura di carburanti al Consorzio di Bacino Tirreno-Cosentino, grazie all’influenza di un boss locale che aveva avviato una partnership con il gruppo criminale e al coinvolgimento di un dipendente del Consorzio ora finito agli arresti domiciliari.

(fonte agenzie)

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