Sindrome di Hormuz: quando il petrolio diventa un arma

C’è una nuova sigla non scritta, ma sempre più sussurrata nei mercati internazionali dell’energia: la “Sindrome di Hormuz”. È la paura che serpeggia tra analisti, governi e investitori ogni volta che il Golfo Persico si infiamma. Una sindrome che oggi ha ripreso forza – e potenziale distruttivo – come non accadeva dagli anni ’80, quando Iran e Iraq si contendevano a colpi di missili e mine marine l’accesso a uno dei passaggi strategici più delicati del pianeta.

Cos’è lo Stretto di Hormuz? Uno sbocco largo appena 39 chilometri, incastrato tra Iran e Oman, attraverso cui transita circa il 30% del petrolio mondiale e il 20% del gas naturale liquefatto (GNL). In pratica, una valvola planetaria dell’energia. Se si chiude, si blocca tutto: petroliere, noli marittimi, forniture, e con esse interi equilibri geopolitici e macroeconomici.

Ed è proprio questo il “pulsante rosso” che i Pasdaran iraniani stanno minacciando di premere. Non lo fa Khamenei, né qualche ministro; lo fa il braccio armato e ideologico della Repubblica Islamica, che definisce la chiusura dello stretto “una misura legale”. Una sorta di embargo rovesciato, con l’Iran che – invece di subire sanzioni – le impone al mondo intero.

I numeri della paura
+60%: l’aumento recente delle assicurazioni per le navi che attraversano Hormuz.

130 $/barile: lo scenario “apocalittico” se la crisi esplode sul serio, con impatto devastante su inflazione, logistica e costo della vita.

67 miliardi di dollari: il deficit previsto dell’Arabia Saudita in caso di blocco.

2.000 km: il raggio d’azione dei missili iraniani, secondo i Guardiani della Rivoluzione. Tradotto: qualsiasi portaerei americana nel raggio può essere colpita.

Gli analisti più anziani richiamano il precedente della crisi petrolifera del 1973, quando l’embargo OPEC seguito alla guerra del Kippur fece quadruplicare il prezzo del greggio in poche settimane. Allora, a cambiare fu il mondo. Oggi, a cambiare potrebbero essere i rapporti di forza globali, con un Iran deciso a “sanzionare il pianeta” anziché subirlo.

Per chi opera nella distribuzione carburanti – a valle della filiera – questo scenario non è solo geopolitica da telegiornale. È una vera e propria minaccia operativa e commerciale. Come sempre i primi ad avere le conseguenze sono i Gestori:

Prezzi  fuori controllo, con fluttuazioni quotidiane difficili da spiegare alla clientela. Difficoltà nelle forniture, tra ritardi nei depositi, variazioni nei contratti spot e interruzioni impreviste. Esposizione bancaria crescente, aggravata dai pagamenti anticipati e dalla necessità di fare scorte a prezzi sempre più alti. Inevitabili tensione nei rapporti con compagnie e fornitori, che potrebbero scaricare a valle costi extra, “adeguamenti” logistici e vincoli contrattuali.

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Tony
Tony
4 mesi fa

Non se ne può di sentir sempre le stesse lagne che sono i gestori che speculano quando aumentano i carburanti ma il costo dell energia x fare rifornimento i gestori lo pagano la tari i gestori la pagano,tutti i costi che un rifornimento comporta i gestori li pagano profumatamente mo basta..ci avete rotto con la solita cantilena dell aumento clienti andate a……