La decisione di Eni di sponsorizzare il campionato di calcio è vista come un simbolo del cambiamento di priorità dell’azienda, ma è lontano dai principi di responsabilità sociale e verso una maggiore attenzione all’immagine e al profitto a breve termine. Questo contrasto con l’eredità di Enrico Mattei solleva importanti domande su cosa significhi essere un’azienda veramente responsabile e impegnata nel benessere dei propri dipendenti e della comunità. Un argomento rimarcato dall’ultimo numero di Controdistribuzione, il periodico di informazione della Fegica che riportiamo qui di seguito.
LA FORZA DEL BRAND MATTEI: chissà cosa direbbe l’Ingegnere, nel vedersi confuso con i valori effimeri del mondo “pallonaro”.
L’Eni per cercare in qualche modo di distogliere l’attenzione da quanto sta accadendo nel nostro Paese, sulla deindustrializzazione spinta, sul sempre maggior ricorso ai contratti di Appalto per cercare un “riscatto” attraverso gli sport più amati dagli italiani, ha sponsorizzato il campionato italiano di calcio, alla modifica cifra (riferiscono prudenti notizie di stampa) di 22.000.000,00 di €uro l’anno per tre anni con la possibilità di prolungamento per altri due anni. Insomma, stando alle cifre, nei primi tre anni, un investimento -al netto di tutti gli ulteriori interventi di promozione- di oltre 66.000.000,00 di €uro. E, mentre si inseriscono a tappeto contratti di appalto, si tagliano posti di lavoro, sicurezza sul futuro per decine di migliaia di famiglie che ambiscono a costruire una speranza nella stabilità (negata), gli eredi di Enrico Mattei (che si starà certamente rigirando nella tomba) spendono -in un settore già “ricco ogni oltre misura (e decenza) e per il quale la politica, generosamente, ha riconosciuto sconti, dilazioni, bonus sulla tassazione degli ingaggi dei calciatori provenienti dall’estero- ogni anno l’equivalente del margine riconosciuto ai Gestori (non agli appaltisti) per la distribuzione di circa 600.000.000 di litri.
È come se ogni Gestore della rete di proprietà eni rinunciasse (o destinasse le poche risorse economiche disponibili) ai proventi per circa 250.000 lt/anno a favore del giovane calciatore/fenomeno di turno.
Il contratto di Appalto, serve anche a questo, a recuperare risorse da destinare ad immagine: secondo la migliore tradizione bisogna mostrarsi forti con i deboli, sapendo che si è deboli con i forti.
Come si fa’ a negare una sponsorizzazione che ha la benedizione dello stesso soggetto che nomina gli amministratori di eni?
E, siccome piace evocare l’ing. Enrico Mattei, pronti: il piatto è servito. Tanto si ha la certezza che, quello di Mattei, è un “Brand” forte che ha la capacità di suscitare emozioni ed evocare un’altra epoca storica nella quale le Aziende erano al servizio della comunità, del Paese. In quella realtà, gli imprenditori -da Mattei a Olivetti a Marzotto-oltre a perseguire un giusto profitto, non si dimenticavano che la produzione e la prosperità dell’azienda era possibile anche grazie al contributo di “partecipazione” -anche ideale, fisico ed intellettuale-dei lavoratori che, agli albori del “boom economico”, si sono distinti fino a trascinare l’Italia al 5° posto nel mondo per la produzione manifatturiera (dopo essere usciti malconcia dalla seconda guerra mondiale). Per questo contribuirono alla costruzione di un “modello italiano di welfare” che ancora oggi lascia sconcertati i sociologi del lavoro: case per i lavoratori; scuole e colonie estive per i figli degli operai; ambulatori. Insomma quel welfare (oggi in arretramento perché costoso) che, solo, è in grado di far uscire dall’ignavia milioni di persone. Di lavoratori, liberandoli dall’angoscia della precarietà. Iniziative ed investimenti fatti in funzione del riconoscimento della dignità di chi, con il suo lavoro, contribuiva, alacremente, alla crescita economica dell’Azienda e del Paese. Era un’altra Italia, si dirà. Certo. Su quell’Italia si è costruito quello di buono, onesto, intelligente, capace che siamo stati capaci di fare. Lo stesso Ford, in America, volle seguire l’esempio italiano (e nessuno può accusare di bolscevismo il campione del “mondo libero”). L’Eni costruì case che, una volta realizzate con il fondo dei dipendenti dovevano essere locate a dipendenti e, con i proventi degli affitti (San Donato Milanese e Roma Eur sono gli esempi più concreti) dovevano essere costruite altre case innescano un circuito virtuoso che solo la morte di Mattei ha potuto interrompere. Le residenze, le colonie estive (ed invernali), i villaggi per i dipendenti e le loro famiglie (Borca di Cadore, Pugnochiuso, Cesenatico, Isola Capo Rizzuto, sono alcuni dei tratti di quel “capitalismo dal volto umano” senza il quale niente di quanto realizzato sarebbe stato possibile. La parola magica era “condivisione”. Ed oggi? Ma bisogna pur che qualcuno ricordi che, in quegli anni, quegli Imprenditori (non pezzenti prenditori di beni dello Stato), investivano nel sociale che potrà pure essere considerata, da alcuni, una brutta parola ma bisogna riconoscere che è la matrice sulla quale abbiamo costruito il benessere economico del nostro Paese. Benessere dissipato da una classe dirigente incapace di proseguire nel percorso per il timore di essere additata come non all’altezza di chi l’aveva preceduta. È in questo quadro di progressivo arretramento culturale -ma non è nostro compito ricordarlo- che si sono emerse anche pagine buie (cfr. Enimont): era il tempo dell’assalto alla diligenza consumato per assicurarsi un po’ di visibilità, un po’ di potere, un po’ di denaro.
C’è da ricordare, per avere un’angolazione migliore, che l’Agip -poi trasformata in ENI- era stata affidata a Mattei perché la dismettesse. Mattei non la chiuse ma la rilanciò con coraggio e “sfrontatezza” -svincolando gli interessi italiani da quelli delle compagnie petrolifere multinazionali- (in primis americane), e trasformando il ruolo di Cenerentola dell’Italia sugli scenari energetici mondiali, in un possibile cigno: accordi con l’Egitto, la Persia (Iran), con l’Unione Sovietica (e con la Cina), con i movimenti di liberazione dal colonialismo in Africa e Medio Oriente, ai quali Eni era pronta a garantire -anziché royalties da fame riconosciute dalle major- contratti che prevedevano pari dignità fra i Soci (Paesi produttori e Paesi consumatori).
E acquisire “greggio” a prezzi vantaggiosi contribuì a far diminuire i prezzi sulla rete del Cane a sei Zampe in Italia. Una delle poche volte che comunque contribuì a rinsaldare il rapporto fra Azienda, Gestori e consumatori.
Per realizzare questo progetto, Mattei assunse decine di migliaia di lavoratori, costituì società delle quali ancora molte (nonostante i disinvestimenti effettuati) sono all’avanguardia nel mondo. Con questa capacità di non chiudersi alle novità e con la capacità di guardare avanti l’Eni, negli anni, è stato, di fatto, l’ambasciatore dell’Italia in molti paesi in via di sviluppo (e non solo), l’interprete delle scelte diplomatiche del Paese.
Abbiamo voluto raccontare, in pillole, questa favola italiana, per consentire a tutti di riflettere su ciò che Eni è diventato in questi anni (a partire dalla “chiacchierata” morte di Mattei): una società che genera risorse (che per un terzo vanno allo Stato) ma che ha abbandonato la sua storia. La sua tradizione. La risposta di eni alla richiesta di sicurezza di decine di migliaia di lavoratori che hanno contribuito ai successi dell’azienda, sono i prepensionamenti ottenuti con la dichiarazione dello stato di crisi; il ricorso sempre più frequentemente ai contratti di appalto (dopo i trasporti e le manutenzioni anche sulla rete) per trasformare costi fissi in costi variabili. Eppure i risultati di bilancio dell’eni dovrebbero condurre verso altri lidi.
Per alcuni, quello che conta dell’eredità di Mattei è difendere il “brand” non quello che Mattei ha realizzato contro chi voleva chiudere. Dismettere. In questo sta la sagacia (?), la lungimiranza, la strategia industriale di chi pensa che, domani, la risoluzione del problema, quello del rilancio, quello del benessere economico del Paese, sarà affare di qualcun altro (soprattutto se si sono guadagnati centinaia di miglia di €uro anno, stock option comprese): non sarà un mio problema ma, semmai, di un altro manager. Pazienza se le determinazioni assunte anziché valore hanno portato nocumento. Chi se ne accorgerà? Chi sarà così lungimirante da provare a leggere le dinamiche? E, perché dovrebbe farlo (It’s not my job -non è il mio lavoro)?
In armonia con tutto questo portato, la parola d’ordine ricorrente, il claim (come dicono i pubblicitari anglofoni) scelto da Eni è “Serie A Enilive: muove la passione che ci unisce”. Quale passione? Unisce chi? Per fare cosa? Invece di rimpinguare le tasche di viziati calciatori-divi con una sponsorizzazione “faraonica”, forse eni, per onorare il nome di Mattei, avrebbe dovuto scegliere di impegnarsi, più direttamente, nel sociale (quello che non da visibilità e serate di gala) e per garantire migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti i soggetti che lavorano sotto la bandiera del “cane a sei zampe”. Questo avrebbe fatto Mattei. Questo ha fatto Mattei nel costruire un’azienda solida che era riconosciuta e rispettata in tutto il mondo. Fino alla sua morte. Estremo sacrificio per difendere -al di là delle risultanze processuali- le sue idee sul modello di sviluppo italiano (ricordate la parabola dei gattini raccontata da Francesco Rosi nell’omonimo film?) Ma, come si sa: sic transit gloria mundi. Abbiate almeno la bontà -nipotini senza storia dell’eredità di Mattei- di non farci la lezioncina sul futuro e sulla necessità di considerare bello, operoso e socialmente intelligente il “tagliare”, flessibilizzare, precarizzare. In nome di un profitto che non ha niente a che vedere con le radici di questa società e della tradizione culturale del nostro (cattolico) Paese, a forte vocazione solidaristica. Forse, per l’intanto, sarebbe utile capire, come mai la “cassaforte del gruppo” industriale italiano più riconoscibile è divisa fra il Benelux e l’Olanda. Strano modo per essere patrioti!
Ma anche la favola dell’Eni finirà per essere consegnata alla letteratura antica perché a vincere saranno i nuovi interpreti che si considerano moderni solo perché la precarietà, la disillusione, la frustrazione e il senso di sconfitta si fermano davanti alla loro porta di casa. Sempre che tutto proceda come hanno stabilito i nuovi “guidatori” perché, come si sa, la storia spesso fa le bizze e quello che oggi è dato per scontato (e vincente), domani potrebbe non esserlo. Per questo continuiamo a consigliare a tutti di essere prudenti!
Prima che il gallo canti, pardon, prima che anche Eni live finisca per essere venduta (come già annunciato), proveremo a presenziare a qualche incontro di calcio per manifestare le nostre riserve, il nostro dissenso, spiegando agli spettatori -alla faccia dell’italianità-l’Eni costruita con i quattrini degli italiani, sia destinata ad arrendersi ad un destino che tradisce la sua stessa genesi per approdare ad interessi che poco hanno a che vedere con la sicurezza energetica della “Nazione” (in pompa magna), e che si esauriscono in una manifestazione sportiva pagata con i tagli ai Gestori e con l’introduzione degli appalti. I Gestori, appunto, essenziali per il processo di distribuzione e di presenza nel territorio, così come Eni ha sostenuto fino a pochi mesi fa’, dopo aver aspirato per anni benzene e vapori di benzina, possono essere (dis)messi alla porta con un “calcio in c…” perché, spremuti, non servono più. Che sono più presentabili in società (come i nuovi manager in corso di formazione), non fanno fare bella figura ai nuovi “guidatori” che, ancora, non hanno piena consapevolezza della differenza fra “un erogatore ed un paracarro” e che non distinguono la differenza fra un aromatico ed il bicarbonato di sodio. D’altra parte pagare i nuovi manager 30.000,00 €uro l’anno (lordi) come per decenni hanno fatto con i Gestori, è un’impresa ardua che non potrà essere portate a termine con una pacca sulla spalla. Ed il contenzioso sta per fare il suo fragoroso debutto. Ecco, a noi è tornata la voglia di tornare allo stadio (ma in curva).
Immagine tratta da Staffetta Quotidiana
Be non c’è che dire un bel quadretto , sono tutti allegri e sorridenti a questi Signori la vita gli sorride , è certo che non hanno i problemi dei benzivendoli, a loro tutto gli gira per il meglio non sono mai stati più allegri e contenti di cosi in questo momento hanno il vento in poppa nessuno li può più fermare non c’è sindacato che possa contrastare costoro il governo di turno gli fa un baffo e questi fanno il comodo loro a spese di quei quattro sfigati dei gestori che ancora resistono, gli vanno talmente bene le cose che adesso sponsorizzano il campionato di calcio “a spese nostre”…non ce speranza qualcuno diceva: manteneteli poveri che saranno ubbidienti??????