
Quella che regna, in questi tempi, nel settore, è una grande confusione: molti personaggi sembrano alla ricerca di un autore; altri cercano di barcamenarsi fra il detto ed il non detto; altri ancora fingono di credere di essere veri statisti e, nel loro delirio di onnipotenza (che è facile maturare visto il contesto) di poter cambiare il Mondo. Dalle loro piccole scrivanie.
Una parte della politica -quella dei pasdaran del “costi quel che costi purché riusciamo a dimostrare che avevamo ragione” o magari solo per acquisire consenso- è prigioniera delle proprie convinzioni ideologiche (ma non, per intenderci, quelle nobili del Novecento) ed è pronta a sacrificare tutto per tale “fine”;
una parte dell’industria petrolifera (ma il discorso potrebbe essere allargato) che siede sui carboni ardenti di una transizione energetica e che la esclude da qualsiasi processo ma che va comunque abbracciata per non finire nella lista di proscrizione di quei retrogradi che negano ogni progresso e, con esso, la salute del popolo e delle future generazioni;
una parte -in questo baillamme- racconta “farfanterie” (come avrebbe detto Camilleri) e millanta di portare “energia prodotta solo da fonti rinnovabili” sulle colonnine di ricarica elettrica (come se ci fossero più reti per una distribuzione selettiva o come se il cliente comune dovesse essere penalizzato a vantaggio dei consumi elettrici per autotrazione);
una parte tace sui costi ed i tempi dell’operazione (quanto costa e chi paga per la costruzione delle infrastrutture necessarie come, ad esempio, quella che dovrebbe portare la media tensione presso i punti di ricarica? Ed in quanti anni);
una parte continua a “glissare” sul fatto che, se tutti i cittadini si dotassero di una vettura ibrida e decidessero di effettuare la ricarica nel garage sotto casa, l’intero condominio prima e il sistema poi andrebbero in tilt;
una parte tace su come lo Stato recupererà la decina di migliaia di miliardi derivanti dalla tassazione dei carburanti (e dai prodotti fossili in generale) che colpiscono i consumi individuali per trasferire gli oneri cosiddetti di sistema (come già avviene) sulla bolletta elettrica chiamando anche chi ha soltanto una bicicletta a pedali a pagare per chi ha la proprietà di un auto elettrica da duecentomila €uro;
una parte si distrae quando le si pone la domanda dell’inquinamento connesso con smaltimento delle batterie e del costo (enorme) per la loro sostituzione dopo 4/5 anni di vita;
una parte minimizza quando si domanda quali siano i protocolli di sicurezza per lo spegnimento -in caso di incendio- di una vettura elettrica o ibrida (considerato quello che è già accaduto);
una parte fa finta di non sapere che, in Europa, non tutti i Paesi -pur potendo contare su un apparato produttivo di elettricità molto più diversificato di quello italiano- Stati trainanti dell’Unione hanno scelto un “approccio soft”;
una parte non vuole chiarire come l’energia elettrica per alimentare questo cambio culturale, viene e verrà prodotta, atteso che l’elettricità -al momento- non si stocca (o viene consumata o si disperde): con il vento, con il sole, con il nucleare, con il metano, con il carbone, con l’olio combustibile, piuttosto che nel sottoscala di casa?
una parte, come dicono a Roma, la “butta in caciara” quando si pongono interrogativi sulla effettiva percorrenza kilometrica in modalità esclusivamente elettrica delle vetture ibride perché, come è noto, l’autonomia di queste vetture -come correttamente raccontano le pubblicità in onda in questi giorni sul sistema radiotelevisivo- non va oltre i 50 Kilometri;
una parte, non ha il coraggio di dire che tutto questo polverone sollevato sulle vetture a gasolio con il paventato riallineamento delle accise, altro non è che “orientare il mercato verso i consumi di benzine” che possono coesistere -a differenza del gasolio- nelle vetture ibride;
una parte, infine, non ha la decenza di chiarire che un motore diesel di ultima generazione, emette (inquina) meno di una vettura alimentata a benzina. Soprattutto vecchia di qualche anno (eppure i Sindaci, a cominciare da quello di Roma, vittime di una comunicazione approssimativa, bloccano la circolazione dei diesel (ma non degli autobus che continuano a circolare da tempo immemorabile) ma non di quelle a benzina che, a partire da motori Euro 2 possono, invece camminare regolarmente.
Questo accade perché viviamo nell’epoca nella quale “VINCE” chi suscita l’emozione (indipendentemente dalle idee o dalle cose che dice) più forte e “PERDE” chi, invece, vuole ragionare sui fatti. Sulle cose.
Senza piegare la verità all’interesse di pochi e senza avere un approccio ideologico pregiudiziale.
L’obiettivo di tutti dovrebbe essere quello di garantire con chiarezza e trasparenza il modo migliore per vivere questa fase critica ed avviare, in modalità condivisa, quella transizione energetica che non deve rimanere uno slogan buono da spendersi nella perpetua campagna elettorale che vive il nostro Paese, ma essere riempito di contenuti concreti.
Questa, in sintesi, è la “lista della spesa” legata alle questioni della transizione elettrica: un moloch al quale si è piegata, alla fine, anche Unione Petrolifera, che ha assunto il nome di Unione Energie per la Mobilità (aprendo anche ai produttori di energia elettrica) forse convinta che, ormai, non ci sia più tanto spazio per rivendicare un ruolo (e dire che era trainante!) di governo del sistema o, almeno di collaborazione per la costruzione della strategia.
Se il settore è diventato residuale e indegno finanche di uno strapuntino, saranno i prossimi mesi (anni?) a dirlo, quando sarà finita l’ubriacatura comunicazionale e l’emergenza richiamerà, con forza, l’attenzione su temi veri. Sulla mobilità quotidiana.
Senza retorica ma ci piace ricordare che nel periodo di lockdown senza carburanti tradizionali il Paese si sarebbe fermato. Altro che festa sui prati!
Come dire che chi ha tutto (o quasi) immagina di potersi permettere un bisogno indotto (una sensibilità ecologica sovrastrutturale ovviamente per gli altri); chi non ha niente (o ha pochissimo) deve fare i conti invece con i problemi del quotidiano senza potersi permettere tali bisogni. Magari a bordo di un vettura vecchia di 20 anni (poco importa come alimentata) che non ha diritto agli incentivi statali perché non “preferisce” una vettura ibrida (più costosa) o, perché no! una vettura tutta elettrica (da 3/400 Km. di autonomia e dal costo di 200mila euro).
Ci permettiamo di suggerire ai grandi esperti di comunicazione una nuova parola d’ordine: per essere felici, “DA DOMANI TUTTI IN TESLA. W IL PROGRESSO.
Ma se Atene piange, Sparta non ride.
Come sempre accade durante e dopo le grandi guerre, a farla da padroni sono i profittatori: quelli che fanno incetta della disperazione degli altri, della povertà, della sofferenza, generando a loro volta maggiore povertà, maggiore sofferenza maggiore disperazione, maggior disagio pur di arricchirsi sulle disgrazie altrui.
Ricordate la “maschera” di Edoardo nella Commedia “Adda’passà ‘a nuttata”?
Rammentate cosa trovò il soldato al suo ritorno? Una famiglia distrutta (un figlio ladro; una figlia in fin di vita lasciata sola da una mamma troppo presa ad accumulare denaro con la “borsa nera”, distratta al punto tale da dimenticare i fondamentali dell’umanità e l’amore materno pur di arricchirsi sulle disgrazie altrui). Sullo sfondo un Paese, altrettanto distrutto, che non voleva più sentir parlare della guerra: tutti volevano divertirsi -come i pompeiani- e dimenticare in fretta.
Il nostro settore, oggi, è nelle stesse condizioni. Come se la Liberazione fosse avvenuta da pochi mesi ed il giorno che verrà offrisse l’occasione per dimenticare.
C’è chi fa la borsa nera (nel senso che acquista merce di “dubbia” provenienza);
c’è chi gonfia la propria borsa a scapito della giusta remunerazione dovuta ai Gestori; c’è chi approfitta della “distrazione” dello Stato per obbligare chi ha bisogno di lavorare a sottostare a contratti capestro (peraltro vietati dalla Legge);
c’è chi, per mettersi con l’anima in pace, volta la testa dall’altra parte e cerca conforto e legittimazione ad ogni nefandezza ricorrendo alla posizione auto assolutoria: “ma, tanto, fanno tutti così!”;
c’è chi manifesta pubblicamente virtù e si dice pronto a fare la sua parte per ricuperare credibilità (sperando che ciò allontani i sospetti) ed economicità al settore e, in privato, diventa il più spietato degli aguzzini;
c’è chi, sulla pelle dei Gestori e sulle politiche di dismissione delle compagnie integrate, ha finito per convincersi di essere un grande imprenditore, capace di dettare le regole a questo settore, senza rendersi conto che, invece, è molto più simile ad un “magliaro” che cerca di piazzare della merce “taroccata” ad ignari acquirenti , approfittando della distrazione generale (è come il gioco delle tre carte alla fiera del paese: guardami negli occhi che ti frego con le mani);
c’è chi dimentica che il nostro comparto è fatto di tanti piccoli pezzi (e di tanti egoismi) che per produrre un effetto “settore” tutte le diverse anime hanno necessità che tutti i pezzi riescano a comporre un puzzle intellegibile (piuttosto che un effetto “Picasso”);
c’è chi è convinto di essere più furbo di altri (non più intelligente, visto che l’intelligenza non va più di moda) e cerca, in ogni modo, di guadagnare tempo senza cambiare il proprio atteggiamento, nella stolta convinzione che il tempo possa rimediare a tutte le storture e mettere al riparo le sue “disinvolture”; c’è chi non si rende conto che, come recita la Bibbia, c’è un tempo per tutto e che tutto non può essere a vantaggio di pochi;
c’è chi dimentica che un “popolo affamato”, prigioniero o costretto ad un umiliante “servaggio”, alla fine si ribella spazzando via il perbenismo ipocrita che nasconde la violenza delle azioni;
c’è chi, in preda ad un delirio di onnipotenza derivante da un Ego smisurato, non vuole proprio accettare che l’universo sia popolato da altri soggetti (ad esempio Gestori) che hanno il sacrosanto diritto di difendere il loro spazio e di denunciare le rendite parassitarie che si vanno moltiplicando, nel silenzio, nel nostro settore;
c’è, infine, chi non considera che la storia è un divenire e che i sovvertimenti (o le modificazioni strutturali per dirlo con un termine che non infiamma gli animi) possono avvenire in un battito di ciglia e senza che alcuno possa sentirsi, in perpetuo, al riparo delle “vendette della storia.
Forse dovremmo, tutti insieme, rispondere alla domanda dove, con le nostre azioni, vogliamo trascinare il settore: verso la rovina definitiva o verso la ricomposizione di un quadro di compatibilità e di rispetto dei diritti di ciascuno.
Sarebbe sufficiente immaginare che una “nuova scossa” in aree geopolitiche che influenzano il prezzo del petrolio (o, perché no! una drastica riduzione dei consumi) potrebbe portare ad un nuovo riassetto del comparto nel quale solo i soggetti più strutturati sarebbero in grado -meglio e di più-di reggere all’impatto di una fibrillazione.
La “ricchezza” che deriva dallo sfruttamento di una posizione di intermediazione da parte di soggetti che non hanno alcun livello di integrazione o vincoli industriali (che significa anche investimenti ed innovazione), è tanto più effimera, quanto più slegata da processi partecipati e da chiare visioni strategiche. Di scenario.
In altre parole, chi oggi si sente “forte” non perché è bravo ma solo perché ha surrogato in una frazione di mercato il ruolo che altri (compagnie petrolifere) non hanno giudicato più remunerativo (anche in considerazione della sedimentazione e delle contraddizioni normative esistenti), può essere in ogni momento “spazzato via” da un mercato che, veramente fosse tale.
Basterebbe pigiare l’acceleratore sulla capacità di approvvigionamento, di stoccaggio; di competitività nella costruzione di infrastrutture moderne: il vero imprenditore non è quello che lucra sulla differenza di prezzi fra acquisto e rivendita al Gestore (magari con un supra sul servizio) o quello che aspetta il viaggio “della speranza” delle botti dalla Slovenia (da porti o broker altrettanto opachi). Basterebbe poco per veder crollare il castello di carte costruito sulle presunte (???) libertà di mercato di chi ha anche l’arroganza di spiegare al settore come ci si comporta in società (un bon ton alla amatriciana).
Ciascuno dovrebbe avere consapevolezza del fatto che, come sosteneva Hegel, la Ragione ha i suoi mezzi (fra i quali l’astuzia), per raggiungere i suoi fini, che sono la liberazione ed il benessere dell’individuo.
Noi, che siamo ottimisti per “contratto” continuiamo a credere che sia possibile tornare a ragionare e trovare -mettendo da parte gli egoismi- una sintesi che possa consentire alla nostra Categoria ed al settore tutto di sopravvivere allo sfascio avviato con la dissoluzione delle compagnie.
Per fatti che sono noti ed incontrovertibili e per responsabilità che sono altrettanto chiare (ma che sarebbe fuorviante riproporle ai fini delle possibilità di futuro).
Nessun processo al passato (a che servirebbe se non a comprendere meglio i fenomeni di oggi?)
Come è nella loro natura, ancora una volta, cercando di scovare il positivo nel fondo delle posizioni espresse dalle varie componenti del settore, le Organizzazioni di Categoria dei Gestori proveranno a fare, per l’ennesima volta, una proposta di buon senso sulla quale costruire le basi di un futuro nel quale ci sia spazio per tutti. Nessuno escluso.
Anche se non sarebbe il loro ruolo: compito delle Organizzazioni di Categoria è quello di portare avanti rivendicazioni di carattere economico e normativo: ma senza una riforma complessiva del settore queste istanze sarebbe destinate, comunque, a fallire.
troppo lungo da leggere